Nasce con una «distratta collezione» di fotografie il Ritratto dell’Artista da piccolo di Marta Barone (Utet, pp. 224, euro 16), come quella che ritrae Vladimir Nabokov: «un bambino di un anno con una vestina lunga bianca, assiso su un seggiolino per mangiare, il piccolo pugno appoggiato sul tavolo, l’aria severissima e giudicante».

C’È SEMPRE QUALCOSA di struggente nei volti immortalati di bambini, non solo perché, come ha osservato lo scrittore Tommaso Pincio, è facile cogliervi «un’anticipazione degli adulti che prenderanno il loro posto» ma anche per «il fatto che attimi di quel tempo sono stati sottratti con uno scatto alla loro naturale sparizione» (L’evento nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, il Mulino). La stessa Marta Barone, nella Premessa al volume, spiega di aver cercato nelle fotografie e nei ritratti di ogni artista da piccolo «indizi di un carattere, una traccia, un destino, un legame fisico» con ciò che aveva letto e che talvolta aveva avuto «bisogno di incarnare». Rimane sempre calzante la domanda che dà il titolo a quella magnifica raccolta di interviste sull’infanzia di Dacia Maraini: E tu chi eri? – che alla fine significa anche domandarsi chi eravamo noi.

Undici sono le infanzie che l’autrice ha scelto di raccontare: Marguerite Yourcenar, Eudora Welty, Gregor von Rezzori, Ingeborg Bachmann, Anna Maria Ortese, Walter Benjamin, Elias Canetti, Natalia Ginzburg, Vladimir Nabokov, Magda Szabó, Virginia Woolf. È un piccolo album di famiglia quello composto da Barone, perché succede così con le autrici e gli autori che amiamo: diventano uno di noi.
Tant’è che intorno alle fotografie e ai ritratti, nel testo solo evocati, la scrittrice cuce le proprie parole insieme a quelle degli autori, le cui citazioni dirette provengono dai testi riportati nella bibliografia, come accade per i saggi critici, sebbene Ritratto dell’Artista da piccolo non sia un saggio, e nemmeno una raccolta di biografie, bensì di racconti, preziosi cammei.

SE L’ABBIAMO ben inteso, in questa direzione l’autrice avrebbe forse potuto spingersi ancora di più, nonostante il pudore che si prova quando si entra nella vita degli altri, anche se in punta di piedi. Per alcuni degli autori scelti, per esempio Benjamin e Canetti, deve essere stato più facile raccogliere informazioni – ma certamente non selezionarle e «riscriverle» – perché della propria infanzia hanno parlato più esplicitamente, per altri invece, come ad esempio per Ortese in cui l’infanzia è continuamente travestita, e a volte persino trasfigurata, o per Bachmann in cui è tutta condensata in un verso, o addirittura in un nome (Galicien), il lavoro non deve essere stato affatto semplice.
E tuttavia Barone è riuscita a raccontare le undici infanzie in modo coinvolgente, grazie soprattutto al montaggio, insieme delicato e deciso, con cui ha ritratto ogni artista.

VISTE SFILARE una vicina all’altra tutte le infanzie sembrano condividere, pur nella loro singolarità, uno stesso ineffabile segreto: non solo perché toccate dalla violenza delle guerre mondiali ma perché tutto ciò che riguarda l’infanzia è destinato a diventare mitico.
Ritornano i giochi tra fratelli e sorelle, le relazioni non sempre facili con il mondo degli adulti – genitori, nonni, balie – , la lingua madre e le lingue parlate, le perdute e le salvate, le scoperte felici, ma anche quelle dolorose, e infine la nostalgia per i luoghi che pervade ogni pagina: «Tutto ciò che ho provato e vissuto in seguito era sempre già accaduto a Rustschuk» scrive Canetti parlando della sua città natale in Bulgaria.
Ed è di città, strade, giardini, case e persino castelli, stanze, che pullula il libro di Barone, quasi a suggerire che la poetica dello spazio è sempre anche una poetica della rêverie, come insegna Gaston Bachelard.