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Quella narrazione del potere oltre «le cene eleganti»

Quella narrazione del potere oltre «le cene eleganti»13 febbraio 2011, Roma, Piazza del popolo gremita per la manifestazione delle donne «Se non ora quando?» / foto Ansa

MORTO UN PAPI Dalla retorica del «papi» a quella del «bunga bunga», l’idea della sessualità per Silvio Berlusconi e la riflessione critica femminista. Vergini, olgettine, giovani ospiti o escort, sono state definite in molti modi le donne avvicinate dall’ex premier. Mentre nello sfondo emergeva una maschilità triste e predatoria

Pubblicato più di un anno faEdizione del 13 giugno 2023

È il 27 aprile del 2009 quando Silvio Berlusconi si reca a Casoria per la festa di compleanno di Noemi Letizia che all’epoca compiva 18 anni e che, come ricostruito in seguito, aveva già incontrato l’allora premier. Comincia da qui lo sdoganamento della retorica del «papi», non solo perché la ragazza lo chiamava in questo modo ma perché è rimasta una delle tante espressioni che ha impresso un segno preciso nella opinione pubblica, oscillante tra il disgusto e la morbosità, a proposito della collocazione di Berlusconi che non è mai stata solo di «condotta privata».

Il giorno seguente, siamo al 28 aprile del 2009 (e poi in un’altra puntata il 3 maggio), Veronica Lario dichiara all’Ansa la sua secca disapprovazione. E se due anni prima (il 31 gennaio del 2007) in una lettera si era interrogata sull’ipotesi di considerarsi «La metà di niente», come la protagonista del romanzo di Catherine Dunne, ora si mostra più decisa: «La strada del mio matrimonio è segnata», perché impossibilitata a stare «con un uomo che frequenta le minorenni. Chiudo il sipario sulla mia vita coniugale». Accanto alla narrazione del «papi», sfruttata e rideclinata dai giornali fino a definire la stessa Neomi Letizia una «papi-girl», c’è un’altra immagine che arriva subito dopo dall’affondo di Lario: «Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo e la notorietà».

VERGINI, OLGETTINE, giovani ospiti, escort e via discorrendo, sono state definite in molti modi le donne che sono state avvicinate da Silvio Berlusconi, incontrandolo, frequentandolo, partecipando alle cene di Arcore poi connotate dal cosiddetto gioco del bunga-bunga o dalle intercettazioni telefoniche che via via davano dettagli se possibile più indigesti di una maschilità triste e predatoria.

Eppure quella primavera che a valanga ha dato una scossa notevole alla tenuta pubblica di Silvio Berlusconi, per esempio con l’entrata in scena di Patrizia D’Addario (luglio del 2009) e poi con quella di Karima El Marough (maggio del 2010), poggiava su un terreno molto florido di precedenti retrivi e misogini. Sono talmente tanti da avere l’imbarazzo della scelta, uno per tutti è segnato dalle dichiarazioni pubbliche di un premier che commentava, solo pochi mesi prima (gennaio 2009), il contrasto allo stupro con «un soldato ogni bella donna», canzonando inconsapevolmente anni di antiviolenza e al contempo proponendo una poltiglia indistinguibile, erotizzata e scadente. Una ostinazione al deterioramento, in cui hanno giocato, e giocano ancora nel ripercorrere quegli episodi, verità e finzione, da un lato corpi reali, liberi e sessuati e dall’altro costruzioni immaginifiche.

A UNA INADEGUATEZZA della politica istituzionale, l’elaborazione femminista mostra in quel momento una discussione pubblica di notevole interesse, proprio a partire dalle pagine di questo giornale e grazie in particolare alle analisi di Ida Dominijanni che, ancora prima di pubblicare il suo volume Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi (Ediesse, 2014), aveva sollecitato sul manifesto un’interlocuzione quasi quotidiana nei tre anni precedenti. Nel documento «Sesso e politica nel post-patriarcato», scritto da Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni, Tamar Pitch, Bianca Pomeranzi e Grazia Zuffa, e diffuso il 26 settembre 2009, si convoca un incontro nazionale (il 10 ottobre dello stesso anno alla Casa internazionale delle donne) puntando sul nodo principale: «Lo scambio tra sesso, potere e denaro, nel caso-Berlusconi, parla del degrado della cosa pubblica. Dell’uso privato delle istituzioni e del potere. Dell’asservimento dell’informazione – non tutta, ma la maggior parte -, con conseguente aggressione ai pochi spazi di libertà e di critica». Eppure, si legge ancora, «resta oscurato, nella rappresentazione che ne è stata data, quello che è il cuore della vicenda: la sessualità maschile e il rapporto con le donne di un uomo di potere. Ci troviamo di fronte a una sessualità e a un potere maschili che si esercitano su donne ridotte a corpi rifatti, per essere oggetti compiacenti di consumo».

ALLA LETTURA quasi ossessiva data da tanta stampa mainstream, sui singoli incontri, sulle presenze, sulle telefonate, sulla cronaca dunque dei ripetuti «scandali» che si sono inchiodati a espressioni che hanno svuotato di senso ciò che stava accadendo (dal Ruby-gate al cosiddetto bunga bunga ma anche lo stesso richiamo reiterato al «papi»), ciò che è accaduto è aver messo al centro il nodo decisivo che era, ed è, quello tra sesso e potere che nella fenomenologia berlusconiana ha prodotto cortocircuiti anche interni allo stesso movimento delle donne. E a come queste donne, reali, libere e sessuate, sono state chiamate, rimproverate, appellate, definite, rimosse.

È il 13 febbraio del 2011 e una manifestazione enorme, tra uomini e donne, affolla piazza del Popolo a Roma, si incontrano a migliaia anche nelle piazze di tutta Italia, rispondendo a un appello di «Se non ora quando» in cui viene palesata l’indignazione collettiva «per rispetto e responsabilità verso noi stesse, verso le nostre figlie, verso le ragazze e i ragazzi di oggi». Rispetto, dignità, sono elementi scivolosi da ripensare e ricollocare, all’interno di un contesto che ancora oggi, a discuterlo, presenta i termini di un discorso più ampio e complesso. Da affrontare radicalmente.

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