Cultura

Quella musica per restare umani nei lager nazisti

Quella musica per restare umani nei lager nazisti

Indagini Il saggio di Roberto Franchini, «L’ultima nota. Musica e musicisti nei lager nazisti», per Marietti 1820. Per quanto strano possa sembrare alla luce di quel contesto, ad Auschwitz, a Westerbork, a Terezín, a Buchenwald e a Dachau si è fatta musica per le ragioni più disparate

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 19 febbraio 2022

La ricerca storiografica, che continua a prendere meritoriamente in esame gli innumerevoli aspetti della Shoah, concentra talvolta la propria attenzione su alcuni temi all’apparenza marginali che però, in realtà, non lo sono affatto. Si tratta, al contrario, di argomenti che contribuiscono tanto a restituirci la complessità di un avvenimento estremamente sfaccettato quanto a stimolare il nostro interesse. Giunge dunque a proposito il saggio del giornalista e studioso Roberto Franchini, già autore di Cartoline da Auschwitz, che reca il titolo L’ultima nota. Musica e musicisti nei lager nazisti (Marietti 1820, pp. 322, euro 24,00): una disamina lucida e meticolosa volta ad analizzare un particolare profilo della realtà concentrazionaria, quello relativo alla produzione musicale che venne composta ed eseguita in alcuni campi.

PER QUANTO STRANO possa sembrare alla luce di quel contesto, occorre notare come ad Auschwitz, a Westerbork, a Terezín, a Buchenwald e a Dachau si sia fatta musica per le ragioni più disparate. Le SS costringevano per esempio i prigionieri ad accompagnare – suonando brani strumentali – le esecuzioni, le torture, le marce verso il luogo di lavoro o alla volta delle camere a gas; dal canto loro le orchestre da camera e quelle più grandi, oltre a intrattenere il personale militare che prestava servizio nei lager e tenerne alto il morale, erano anche chiamate a sostenere la propaganda nazista. La musica era, insomma, un elemento pienamente funzionale all’organizzazione dei campi: ne scandiva i diversi momenti della giornata, i pasti e anche le domeniche.

Va poi sottolineato come l’esperienza concentrazionaria abbia accomunato musicisti di grande valore che, nonostante tutte le vessazioni subite, hanno prodotto opere di notevole qualità. Dai motivi jazz ai lieder, dai canti religiosi alle sinfonie, dai quartetti ai pezzi per coro, colpisce un dato di fatto: la macchina dello sterminio non è riuscita a mettere a tacere la vitalità creativa dei loro autori. In bilico tra ribellione e speranza, tormento e consolazione, molte delle composizioni che furono elaborate nei lager si innalzarono ben al di sopra della miserabile realtà quotidiana dando così luogo a una decisa reazione alla sopraffazione e all’abbrutimento.

A proposito del «potere salvifico» esercitato dalle loro partiture, Franchini osserva: «Molti dei musicisti che si sono salvati sapevano bene quanto fosse importante rimanere vivi nello spirito, oltre che nel corpo: spenta la resistenza psicologica si sarebbe spenta anche quella vitale. Prima di tutto occorreva rimanere una persona, non diventare un numero nella impersonale contabilità delle entrate e delle uscite degli umani nel campo». Allorché si resero conto di essersi lasciati alle spalle solo morti e distruzioni il lavoro costituì, insomma, il loro unico rifugio.

IL SAGGISTA NON TRASCURA nemmeno di gettare lo sguardo su un cospicuo numero di compositori, strumentisti e direttori d’orchestra tracciandone un profilo sovente circostanziato ed esaustivo, come attestano le pagine dedicate a Viktor Ullmann, a Gideon Klein, a Erwin Schulhoff, a Hans Krása, al violinista Jaques Stroumsa, alla pianista Alice Herz-Sommer nonché a Herbert Zipper e Maurice Hewitt – due autentici virtuosi del podio: ci si augura che inducano il lettore ad andare alla scoperta delle musiche nate e risuonate tra quelle baracche.

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