È con buon tempismo che l’editore Meltemi, grazie alla gran mole di lavoro del curatore Adelino Zanini, ripropone un testo fondamentale per il dibattito economico e politico del Novecento: Capitalismo, Socialismo e Democrazia di Joseph A. Schumpeter (pp. 660, euro 32). Si tratta dell’ultima grande opera, una sorta di testamento politico, dell’economista austriaco, emigrato ad Harvard nel 1932, poco prima dell’ascesa del nazismo. Schumpeter è stato (con Marx e Keynes) uno dei tre maggiori analisti del sistema capitalistico. Caso vuole che essi siano accomunati dal 1883, anno della morte di Marx ma anche della nascita di Keynes e Schumpeter, quasi un passaggio di testimone.
A differenza di Keynes (che non aveva mai letto Marx), Schumpeter è stato un attento studioso del pensiero marxiano come mostra la prima parte di Capitalismo, Socialismo e Democrazia. Schumpeter, se da un lato riconosce a Marx di essere stato il primo ad analizzare il capitalismo in un’ottica dinamica e non statica, con una logica opposta ai modelli walrasiani di equilibrio generale, dall’altro ne critica l’impostazione basata sul concetto di lotta di classe.

MARX RESPINGE come «favola borghese» (Kinderfiebel) l’idea che il capitalista-imprenditore sia dotato di particolari virtù (talento, intrapresa e intelligenza). Secondo Schumpeter, invece, «chiunque guardi i fatti storici e contemporanei riconoscerà che quella favola, se è ben lontana dal dire tutta la verità, ne dice però gran parte. Il successo industriale e, soprattutto, la fondazione di solide imprese industriali si spiegano in nove casi su dieci con un’intelligenza ed un’energia superiori al comune».
Se l’accumulazione primitiva può essere l’esito di un processo di depredazione, una volta affermatosi, il capitalismo si caratterizzerebbe per la capacità di trasformarsi continuamente grazie allo spirito imprenditoriale. Il riferimento è al processo di distruzione creativa, che Schumpeter aveva già descritto in Teoria dello Sviluppo Economico del 1911. Il dissidio con Marx è profondo e Schumpeter ritiene che la figura dell’imprenditore rappresenti una «soggettività» in grado di ridefinire costantemente il rapporto di produzione. Da questo punto di vista, il profitto appare la remunerazione non di un atto di sfruttamento ma della capacità imprenditoriale.

NELLA SECONDA PARTE, Schumpeter discute del destino del capitalismo: «Può il capitalismo sopravvivere? No, non lo credo». Una conclusione in linea quindi con il pensiero marxiano. Ma le motivazioni sono diverse. Per Schumpeter, il capitalismo sarà vittima del suo stesso trionfo. La capacità dinamica è la condizione della sua sopravvivenza, ma più l’accumulazione cresce, più si affermano le condizioni endogene che porteranno alla sua fine. Lo Schumpeter maturo è costretto a constatare che il processo di distruzione creativa ha lasciato il passo al capitalismo monopolista. La necessità di sfruttare le economie di scala statiche connesse al paradigma taylorista ha avuto come effetto la crescita dimensionale delle imprese e la concentrazione dei mercati nei principali settori produttivi. Ne deriva il decadimento della figura dell’imprenditore e la sua tendenziale sostituzione con una burocrazia manageriale volta più a sfruttare le rendite di posizione che a favorire politiche innovative.
Schumpeter ha nostalgia di un capitalismo concorrenziale, fatto da tante piccole imprese, la cui competitività e il processo di selezione che ne consegue rappresenta la linfa vitale della sua capacità di trasformazione.

MA È PROPRIO questa carica innovativa che ha prodotto la burocratizzazione dell’impresa. Ma a differenza di Marx, la fine del capitalismo non porterà a una rottura rivoluzionaria ma a una forma di socialismo tramite un processo graduale, per vie parlamentari, in cui si vedrà la concorrenza di gruppi corporativi non più regolata dal mercato bensì dallo Stato.
Sono passati più di 80 anni dalla pubblicazione di Capitalismo, socialismo, democrazia e il tema della sopravvivenza del capitalismo è ancora attuale, reso più stringente dalla crisi ambientale. Il pensiero di Schumpeter può essere ritenuto, al riguardo, paradossale ma, forse proprio per questo, altamente stimolante.
Dopo la crisi degli anni Trenta, il patto sociale fordista in salsa keynesiana ha rappresentato una via d’uscita, garantendo una stabilità economica storicamente eccezionale grazie alla crescita simultanea di profitti e salari. Eppure, per Schumpeter, il trionfo del fordismo sarebbe la causa principale del declino del sistema capitalista.

Il paradigma fordista è entrato in crisi nei tardi anni Sessanta negli Usa e negli anni Settanta in Europa e Giappone. Le cause sono quelle profetizzate da Schumpeter ma anche quelle auspicate da Marx: l’insorgere del conflitto di classe. Ma nei tardi anni Settanta e negli anni Ottanta un nuovo processo di distruzione creatrice si è diffuso, favorendo la nascita del nuovo paradigma tecnologico dell’ICT (Information Communication Technology) e smentendo la previsione che il gigantismo industriale avrebbe portato alla scomparsa del capitalismo.
La nuova fase del capitalismo, che alcuni chiamano capitalismo bio-cognitivo o delle piattaforme, è stata in grado di sviluppare una potenza innovativa che ha strutturalmente trasformato i processi di valorizzazione e accumulazione tra finanziarizzazione e internazionalizzazione selettiva della produzione e della logistica.

NE CONSEGUE che il sistema capitalistico è in grado di sopravvivere solo attuando un processo costante di metamorfosi che, Schumpeter ci suggerisce, non è frutto del suo divenire. In altre parole, il capitalismo da solo non può salvarsi. Ha bisogno di stimoli che provengono dall’esterno. E qui entra in gioco Marx, che a differenza di Schumpeter ritiene che fattori esogeni al capitalismo possono mutarne la struttura, con la possibilità di compensarne la deriva. Che siano le forze anticapitalistiche a garantire la sopravvivenza del capitalismo stesso?