Se uno pensa alla Grecia e al suo teatro, è fin troppo facile legarli a Epidauro con la sua scena maestosa, e a una tradizione da cui è nato tutto il teatro moderno del mondo, qualche millennio fa. Se invece si fruga oggi nelle programmazioni dei teatri della capitale, si scoprono «giacimenti» e gioielli cospicui che proiettano di fatto verso il futuro teatrale comune, nelle due (solo in apparenza divergenti) tendenze: quella di una tecnologia spinta fino a saltare oltre la parete cinetelevisiva per riuscire a scavare una «anima» al racconto sulla scena, oppure quella che rinuncia a ogni «lusso» scenografico, e perfino alla parola stessa, valorizzando e moltiplicando la forza di un racconto di semplicità assoluta ma di potentissima espressione, e valore.

NELLA SEDE fantascientifica del teatro Onassis, appena fuori dal centro, si celebra in modo trionfale uno dei più grandi artisti visivi del novecento, Rohtko. I colori famosi delle sue tele, dall’arancio al rosso al giallo, sparati sulle pareti scenografiche del racconto, portano quasi fisicamente alla sua identità. Anche se l’artista di origine lettone, è colto da questa narrazione nell’epilogo umanamente triste e tragico della sua vita, che lo porterà al suicidio nel 1970 mentre le sue tele guadagnano i primi posti nel valore commerciale assoluto di tutti i tempi: una decina d’anni fa un oligarca russo ha acquisito una sua grande tela per 186 milioni di euro (terza quotazione assoluta nella storia per un’opera d’arte)….

Scena da “Goodbye, Lindita”

Ma lo spettacolo intitolato seccamente all’artista, Rothko, all’Onassis arriva dalla Polonia, firmato da Lukasz Twarkowski, giovane regista, formatosi con Kristian Lupa, ma già tra i nomi eccellenti del teatro europeo. Una biografia iconoclasta e dissacrante, che alla grandezza delle sue opere contrappone l’infelicità del grande pittore. Lo spettacolo si apre in un ristorante cinese, ma già campeggia un grande letto matrimoniale: tutto il racconto (quattro ore compreso un breve intervallo) vive della contraddizione tra il genio dell’artista e le sue debolezze. Una vicenda che è quasi una scalata alla sua infelicità, raccontata con i mezzi più fantascientifici che si siano visti su un palcoscenico. Le cui pareti sono schermi multipli in continuo cambiamento, a suggerire location, prospettive e sguardi di grande e molteplice visualità. Una escalation senza sosta nella psiche depressa, solitaria e altrettanto geniale nell’inventare colori, variazioni e affondi che riempiono l’occhio e bombardano il cuore dello spettatore. Cui rimane solo il dubbio, davanti a tanta magnificenza cromatica, susseguirsi di ambientazioni e progressivo avvitamento esistenziale, se non si corra il rischio che la tecnologia possa divorare la genialità di un artista sommo, che con quel mazzo di colori violenti ha raccontato e focalizzato l’umanità straordinaria di una vita.In «Goodbye, Lindita», storie sospese nel passato con lampi sul futuro

DI SEGNO totalmente inverso l’altro spettacolo applaudito ora al teatro nazionale di Atene. In comune c’è solo il fatto che anche l’autore di questo sia «straniero»: viene dall’Albania il giovanissimo Mario Banushi, che già da qualche anno lavora in Grecia, ed elabora un teatro ricco di immagini e rimandi, ma tutto rigorosamente fatto in scena, momento per momento: dalle scenografie ai costumi, alla vicenda che prende corpo (anche nella periodica nudità dei personaggi) per raccontarci una storia che sembra affondare nel passato delle tradizioni, ma che proietta invece inquietanti lampi futuri sui componenti di quella famiglia, attorno alla morte, almeno in apparenza, della figlia che dà il titolo alla performance: Goodbye, Lindita.
Tra ascendenze etnomediterranee, suoni di omologa ambientazione, gesti e comportamenti dove la ritualità religiosa legata alla morte mostra i propri inscindibili legami col piacere della vita, si snoda un racconto che affascina e calamita lo spettatore tra immedesimazione e stupore. Anche per la prodigiosa abilità dei giovani interpreti di manipolare a vista con grande capacità creativa corpi e costumi, luci e suoni, immaginari e dolori, fino a farci sentire, noi spettatori, un frammento di quel racconto che sulla scena magicamente si consuma.