Ciò che gira intorno alla musica tende o può tendere ad assumere un tono epico: concerti, dischi belli o brutti, tournée, strimpellate amicali, chitarre, magliette, manager. Specialmente la musica vissuta, a differenza di altri linguaggi artistici, ha in seno una connotata propensione alla narrazione; ricordiamo la prima volta che abbiamo visto quel gruppo, con chi, dove, cosa ci muoveva, forse perché l’avventura – e quindi il nostro personale viaggio dell’eroe – ha sempre una colonna sonora. Basti pensare ad Alta fedeltà di Nick Hornby.

Con gli anni poi quell’intima epopea assume un tono sempre meno spiccato, su cui al limite si ironizza quasi a esorcizzare la vergogna che bolla l’ingenuità della giovinezza. Non è così per Sandro Medici autore di Meridiano rock (Manni, pp. 137, euro 17), un romanzo in prima persona dove racconta la nascita di un gruppo rock a Melfi, gli occhi e la voce sono quelli del quattordicenne batterista, approdato lì da Roma con la madre e ancora all’oscuro delle dinamiche di paese.

LA BAND, denominata i Normanni in onore del medioevo melfitano, prende forma come spesso accade con le buone intenzioni, quelle di imbracciare basso, chitarra e batteria e provare a far uscire qualcosa e in qualsiasi modo, trasformando angoli remoti della provincia in ameni spazi di condivisione, fuori dalla routine, linfa che sgorga in ogni fenomeno underground a venire.

CIÒ CHE STONA e quindi innova nella storia scritta da Medici è che, pur se inserita nel filone narrativo del rock and roll, una volta tanto abbiamo a che fare con un racconto gentile, con un uso sapiente della lingua, dove a spingere la lettura non sono le parabole eccentriche del musicista, la dannazione, la nascita del mito o la dissoluzione.

L’autore, con alle spalle anni di giornalismo, fra fiction e autofiction, punta piuttosto al realismo per mettere in luce gli equilibri incancreniti e le diffidenze di un piccolo, placido e possiamo anche dire mortifero, paesino in cui un gruppo di ragazzini decidono di fondare la band: «Tutto doveva procedere come naturalmente si erano avvicendate le stagioni e le generazioni, e storicamente stabiliti i poteri e le gerarchie, le ricchezze e le miserie».

Siamo nel ’65, introdurre un elemento destabilizzante come il rock nel contesto arcaico e statico sud-Appenninico, dove per uscire con una ragazza bisogna dichiararsi e fare una serie infinita di convenevoli, significa anche dimostrare come ogni genuino elemento culturale attiva l’intraprendenza e una serie di connessioni a chiunque, in modo critico, indifferente o benevolo, ne venga a contatto: «La musica era dunque vissuta e usata solo in funzione di quelle occasioni comunitarie, ad allietare e intrattenere famiglie in festa con i loro invitati, oppure ad accogliere, anzi scortare con trombe, tromboni e clarinetti gli afflussi popolari».

Nel romanzo che segue una linea del tempo dettata dai flashback, a fare il contraltare all’impietosa descrizione della provincia c’è la Roma frizzante dei ‘60, gli strambi personaggi che circolano, uno dei quattro concerti dei Beatles al Teatro Adriano o il campetto di via Ozanam dove giocava a pallone Pasolini.

NON C’È RIMPIANTO del passato, si seguono piuttosto il flusso dei pensieri, le intuizioni, le paure, le incomprensioni e i desideri degli anni di formazione del protagonista, anni marcati dalla povertà ma anche dal coraggio di rompere barriere superando lo scetticismo conservatore di una società monolitica, magari salendo per la prima volta su un palco raffazzonato. Un romanzo che, a ben vedere, parla anche di oggi.