Un tuffo riavvicina stati di aggregazione, l’acqua e l’aria, ma anche due mondi paralleli, sacro e profano, sogno e realtà. Se questo è fatto in un fiume, così ricco di leggende come il Tara di Taranto – a due passi da un colosso industriale, l’ex Ilva, che ha lasciato segni indelebili nell’anima e nella vita di un territorio – acquisisce un valore ancor più marcato. Ed è proprio con un tuffo che si apre la visione di Tara, il film documentario di Volker Sattel e Francesca Bertin – selezionato al festival CinemAmbiente di Torino in programma dal 5 all’11 giugno – che ricostruisce un complesso spaccato sociale alla periferia di Taranto denso di contrasti e relazioni. Lo fa con un registro in bilico tra il realismo magico e l’etnografico, senza aderire specificatamente a uno di questi. Ne parliamo con Francesca Bertin.

Come vi siete avvicinati e come avete scelto la storia del fiume Tara?

La mia collaborazione con Volker Sattel era iniziata con La Cupola (2016), girato nella villa di Michelangelo Antonioni in Sardegna, e in quell’esperienza si era creata un’attenzione condivisa sul paesaggio e sulla relazione uomo-spazio. Io, da italiana, avevo molto riserbo ad avvicinarmi a una realtà complessa come Taranto. Documentandoci sulla leggenda del fiume Tara, di cui si tramanda il culto dei suoi poteri taumaturgici, abbiamo trovato la chiave per farlo, cercando prima di tutto di raccontare come le persone vivevano questo spazio e di come questa presenza lo tuteli da un nuovo incombente sfruttamento. Abbiamo iniziato a girare nel 2017, a ridosso del primo settembre, filmando una piccola processione che si conclude con l’immersione nel Tara. Un momento emozionale che apre anche il film.

Parliamo del Tara che, nonostante scompaia nella parte centrale del film, è il protagonista principale. Cosa rappresenta per chi lo frequenta e che la relazione c’è con la città?

È un fiume di importanza fondamentale, ha cambiato corso nella sua storia a causa della crescita impattante del porto, l’Ilva ne usava addirittura le acque per raffreddare i processi industriali. Per le persone, le sue acque sorgive sono, invece, curative, ma il fiume negli ultimi decenni è anche uscito dai ricordi di molti tarantini nonostante la prossimità molteplice, storica e geografica. Le relazioni, ancor più sotterranee, sono state, però, mantenute in questo territorio carsico ricco di canali nel sottosuolo.

Una ricercatrice, nel film, dice che il fiume non raggiunge lo stato buono e che non ci sono riscontri scientifici sul valore benefico delle acque. Come vi siete rapportati con questo aspetto?

Il film decide di non affrontare una ricerca scientifica ma, all’interno di una multi-prospettiva, dà voce alla scienza. La stessa ricercatrice sostiene che potenzialmente esistono altri metodi d’indagine. Ci siamo concentrati su come le persone vivono questo spazio. Uomini e donne di ogni età, dai ragazzini che giocano a pallone agli ex operai dell’Ilva, che compongono un complesso ritratto sociale, delineando un quadro di tutta la città e dei cambiamenti che l’hanno attraversata nel corso dei decenni.

Persone che in qualche modo si prendono cura del fiume. Il Tara corre nuovi rischi?

Incombe il progetto un grande dissalatore, che recherebbe altri danni a un territorio che invece dovrebbe rimanere libero da nuovi interventi impattanti. È un tema molto caldo in zona.

Si nota nelle immagini delle immersioni, tra i citri (le fontane sorgive) e la flora acquatica, o nei lenti attraversamenti del corso d’acqua una sorta di realismo magico, un’attenzione al sogno e all’immaginazione. È così?

Sì, ed è voluto. Più si cerca la realtà più questa ti sorprende. Le immersioni sono un momento magico che non ha bisogno di altre spiegazioni; la leggenda dell’asino, che ritrovò le forze immergendosi, è parte dell’immaginario popolare. Il film tiene insieme sacro (il legame con le acque del Tara è quasi religioso) e profano, sogno e realtà.

Come avete costruito la relazione con gli abitanti?

Non siamo di Taranto e questo ci ha permesso di avvicinarci alla città e ai suoi abitanti attraverso percorsi diversi. Abbiamo circumnavigato tutti gli spazi attorno all’Ilva, alla ricerca di tracce e rapporti di vario tipo tra il fiume, l’acqua e suoi abitanti; abbiamo voluto anche mettere in evidenza la bellezza e i contrasti di questi luoghi particolarmente colpiti da uno sfruttamento intensivo della natura. E abbiamo compreso, soprattutto durante le proiezioni, come un film possa essere lo stimolo per ritrovare una forma di comunità, di come l’arte possa essere utile per riscoprire una dimensione collettiva.

Non avete scelto dei personaggi tratteggiati, come ormai classico nel documentario di creazione, con un approccio in parte etnografico?

Abbiamo voluto lasciare spazio e libertà alle persone davanti alla telecamera, osservare e poi intervenire in maniera puntuale. Certo, abbiamo creato un setting ma all’interno del quale le persone potessero muoversi liberamente. Con l’idea di mettere anche in discussione una tradizione classica di osservazione, la figura della ragazza che vaga nei luoghi (Jasmine Pisapia) rappresenta la nostra prospettiva.
Il film ha una sua circolarità, si parte dal Tara per poi raccontare la città e infine tornare al fiume. Che equilibrio avete trovato tra uomo e natura?
Il fiume ogni tanto lo dimentichiamo, ci allontaniamo, ma c’è sempre. L’obiettivo era dare voce agli abitanti come riconoscimento vivo di questi luoghi, indagare le relazioni tra gli spazi urbani e quelli naturali, tra i due mari, tra la città vecchia e il nuovo quartiere Paolo VI, all’ombra dell’Ilva. Un territorio frammentato che conserva legami forti e tradizioni, vedi i fuochi di San Giuseppe alle Case bianche per l’inizio della Primavera. L’indagine sul paesaggio, d’altronde, può avere vari livelli.