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Quel treno per Foggia

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Dopo Alain Elkann Qualche giorno fa mi è capitata una cosa stranissima sul treno che da Roma mi stava conducendo a Foggia e che per qualche misterioso motivo, oltretutto, non mi ha teletrasportato direttamente a destinazione

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 luglio 2023

Qualche giorno fa mi è capitata una cosa stranissima sul treno che da Roma mi stava conducendo a Foggia e che per qualche misterioso motivo, oltretutto, non mi ha teletrasportato direttamente a destinazione ma si è fermato qua e là nelle periferie del mondo senza che nessuno si fosse preso la briga di domandarmi cosa ne pensavo.

E dire che viaggiavo come sempre in prima classe proprio per evitare questo genere di inconvenienti, perché non concepisco il tempo che bisogna perdere ogni volta nelle stazioni in cui salgono e scendono gli altri. Tant’è che a una fermata che si poteva chiamare Caserta o Benevento, adesso non ricordo più, non ho potuto fare a meno di condividere il mio disappunto con un tizio seduto a ore quatorze che fino a quel momento non avevo notato ma che ha prontamente risposto alla mia smorfia con una serie di labiali.

Devo ammettere che lì per lì non ho capito assolutamente nulla e che nei minuti successivi mi sono limitato a restituirgli un minimo di approvazione come facciamo noi di prima classe, scuotendo energicamente la testa o impennando il taglio sinistro della bocca chiusa in un sorrisetto di pietà nei confronti della vita normale, finché lui non ha cominciato a rinforzare quel suo strano modo di spalancare gli occhi e le labbra con un gesto quasi impercettibile della mano destra, dalla quale adesso spuntava timidamente il dito indice per poi correre subito dopo al riparo. Allora mi fu tutto chiaro, labiale e ditino si stavano clandestinamente riferendo alle cose che quello strano personaggio aveva addosso o intorno a sé: ora puntava una copia del Financial Times che aveva disposto sul tavolino, per esempio, mentre con le labbra diceva «grande quotidiano economico-finanziario». Poi un librone gigante, che diventava «grande scrittore francese, soprattutto secondo volume sodoma e gomorra».

Oppure l’indice si incurvava verso il tipo medesimo, mentre lui faceva le sillabe di «vestito di lino blu e camicia leggera, bella camicia leggera».

Come potrete immaginare, insomma, la situazione cominciava a trascinarsi e non sapevo più come reagire alle infinite voci di quel suo inventario («grande penna stilografica regalo suocero», «quadernino appunti, grandissimi appunti»), quando lui ebbe la pessima idea di cominciare a spostare il ditino e lo sguardo in giro per la carrozza, dove stavano seduti dei giovani che parlavano di calcio e se la spassavano. E così adesso indicava il berretto di uno e diceva «classico cappello di tela con visiera da giocatore di baseball», oppure il braccio di un altro che diventava «no orologio».

Nel frattempo io cercavo di guardare fuori dal finestrino con il terrore che quei ragazzoni tutti tatuati si potessero infastidire, ma proprio perché forse evitavo di fissarlo, misi finalmente a fuoco che quel tipo lo avevo già visto. Lui se ne dovette accorgere, allora, perché mi sorrise come al termine di una comune impresa, dopodiché indicando se stesso con un gesto complessivo della mano e come per presentarsi direi che abbia detto «grande meritocrazia».

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