Visioni

Quel soffio leggero è una leva potente

Quel soffio leggero è una leva potente

Feste di Piedigrotta Una storia parziale ed eretica della canzone napoletana nel tempo, in quattro puntate. Da Petronio alle villanelle fino al rap, l’evoluzione della musica partenopea

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 30 luglio 2020

Alla metà di marzo, in piena pandemia globale, alcune immagini hanno fatto il giro del mondo. Dai falansteri di cemento della periferia vesuviana, gli abitanti cantavano dai balconi Abbracciame cchiù forte, un brano del 2015 di Andrea Sannino, un esorcismo collettivo contro il coronavirus, la voglia di unirsi in un abbraccio virtuale e in un coro emozionante. Più o meno in contemporanea, è stato pubblicato We come from Napoli, il nuovo singolo di Liberato, il cantante mascherato, scritto con l’aiuto di Robert 3D Del Naja, motore dei Massive Attack, e del rapper giamaicano Gaika (con una strofa tutta in inglese e tanto slang napoletano), sonorità psichedeliche per il tema conclusivo del film Ultras di Francesco Lettieri.

UN TUFFO nelle sonorità prog anni settanta con testi nostalgici e accattivanti arriva dai Nu Guinea, duo napoletano formato da Lucio Aquilina e Massimo Di Lena, trapiantati a Berlino dal 2014, che rivitalizza tutto un repertorio funk-jazz un po’ dimenticato tra Osanna e Tony Allen nell’album Nuova Napoli. Infine le inevitabili risate di Margarita, la parodia del successo di Elodie e Marracash, scritta e cantata da Luca Sepe, geniale cantautore, attore e protagonista di spettacoli musicali, specializzatosi in programmi radiofonici con imitazioni e ironia, lanciando diverse cover in napoletano di canzoni di successo come È sparito (Despacito), Amore e cafunera (Amore e capoeira). Sono tutte declinazioni diverse della musica che si scrive, si ascolta e si produce nella capitale del mezzogiorno oggi ma possono essere annoverate come melodie napoletane contemporanee? La discussione è aperta su cosa sia ormai la canzone napoletana, oggetto di studio di musicologi pertinaci, controverso tema da saggio universitario, per decenni stella più luminosa nella costellazione della musica leggera italiana.

UNA MATERIA piacevole che accomuna una varietà di pratiche sonore sviluppatesi negli ultimi due secoli nel golfo incantato (quello dove andò a morire una Sirena dalla voce tentatrice, Partenope, che diede così il nome alla città greca), con una scena musicale creativa e originale, contaminata con tutti i generi più in voga, eppure viva e con un’identità forte.
Che cos’era e che cos’è la canzone napoletana? «La canzone popolare non si definisce, essa si sottrae all’arida spiegazione della scienza; è una cosa vaga, fuggevole, senza contorni determinati, evanescente – scriveva Matilde Serao nel 1879 -. È tutto ed è nulla; è un soffio leggiero e può diventare una leva potente; brilla di tutti i colori dell’iride, si crede che sia una perla ed è una bolla di sapone; donde viene non si sa, dove va non si conosce; può morire, ma può anche risuscitare; ha una fragile esistenza e la si vede resistere all’urto degli avvenimenti ed al trascorrere degli anni».

ANCORA più chiaro lo scrittore Giovanni Artieri nel 1960, «Un momento lirico colto e serrato in due, tre strofe, esca alla melodia e melodia esso stesso. Nulla di più. Ma occorre che dentro vibri un’autentica intuizione, emozione, passione: un colorito o un alito di nuova stagione, un presentimento, un lamento, un incantamento…» Più di recente, nel 2000, il poeta Salvatore Palomba sintetizzava in maniera icastica: «È la lingua, la prima pietra su cui e stato edificato il canto napoletano, e la lingua il suo connotato più immediatamente riconoscibile, a cui non si può assolutamente rinunciare» tenendo ben presente che «malgrado sia stata contaminata, nel tempo, da sonorità appartenenti ad altre culture e ad altri generi musicali, la melodia napoletana è riuscita a conservare un suo codice di riconoscimento, un proprio Dna».

Proprio il fascino della melodia, inventata da fior fior di musicisti o da appassionati dilettanti, e la seduzione delle parole, messe assieme da poeti e appassionati senza titoli di studio, letterati e giornalisti, inevitabilmente con la coloritura del dialetto hanno portato alla secolare identificazione tra canzone e città. Il racconto di un grande porto mediterraneo attraverso le passioni accattivanti e i sentimenti collettivi della sua gente. Lo sterminato repertorio canoro coi suoi sempiterni protagonisti, il paesaggio e le marine, i giardini e i curiosi aneddoti di vita quotidiana. La canzone napoletana diventa biglietto da visita e cartolina turistica, amplificando l’importanza attribuita alle caratteristiche geografiche dell’ambiente – il sole, il cielo, il mare, la rigogliosa natura dei luoghi, la temperatura mediamente mite- e i suoi riflessi sull’indole rassegnata e tollerante dei suoi abitanti.

FORSE si può cominciare col Satyricon di Petronio Arbitro, ambientato sul litorale flegreo, coi frammenti di alcune voci di venditori ambulanti. E proseguire con Jesce sole, un probabile canto delle lavandaie di Antignano, un’invocazione propiziatoria di bel tempo, certamente rimaneggiato spesso, con numerose versioni (da quella di Giambattista Basile alla riedizione della Nuova Compagnia di Canto Popolare) d’autori ignoti, dell’epoca di Federico II di Svevia e andare avanti attraverso la crescita di quei canti popolari meridionali (citati già da Dante nel De vulgari eloquentia, 1302) nati molti secoli fa. Con tracce persino nei sonetti scritti da Giovanni Boccaccio, nel suo soggiorno napoletano (1327-1329) quando racconta del suo amore per Fiammetta e di un canto ascoltato dalle finestre di Castel dell’Ovo. Se proprio si vuole andare a caccia di un anno significativo è il 1443, con l’arrivo di Alfonso d’Aragona che darà dignità di lingua al dialetto napoletano e favorirà una grande produzione di poesie e poi strambotti, frottole, ballate e farse. Di lì a poco nacque un genere, la villanella alla napolitana, componimento vocale polifonico, certamente influenzato dal canto popolare dell’epoca. Tra le più note Vurria che fossi ciaola, attribuita a Sbruffapappa, Stu core mio di Orlando di Lasso e Voccuccia de nu pierzeco apreturo, forse di Velardiniello.

La villanella diede nome anche a un ballo ma progressivamente perse i suoi caratteri popolari per diventare un componimento aulico piuttosto formale. Camminò parallelamente col madrigale (altro genere di musica vocale non religiosa, in cui eccelleva il compositore Carlo Gesualdo da Venosa, famoso anche per un terribile duplice omicidio) e diede vita all’Opera Buffa, il riappropriarsi del dialetto e della musica presso le classi nobiliari, con rappresentazioni leggere come Lo cecato fauzo e Le zite in galera, entrambe musicate dall’ironico e colto Leonardo Vinci con alcune arie/canzoni destinate a restare celebri: So’ le sorbe e le nespole amare e Vurria reventare suricillo. Ma non corriamo troppo con le complicazioni e procediamo per gradi, chiedendo subito clemenza per probabili approssimazioni e dimenticanze. (1- continua)

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