Quel paradosso «depositario» e «prigioniero» della sua storia
SCAFFALE Stefano Rodotà, «Critica del diritto privato» a cura di Guido Alpa e Maria Rosaria Marella. Edito da Jovene «Editoriali e saggi della Rivista Critica del Diritto Privato», dal 1983 al 2016
SCAFFALE Stefano Rodotà, «Critica del diritto privato» a cura di Guido Alpa e Maria Rosaria Marella. Edito da Jovene «Editoriali e saggi della Rivista Critica del Diritto Privato», dal 1983 al 2016
Non esiste forse forma più genuinamente moderna del pensiero di ciò che chiamiamo critica. Un’operazione che, da Kant a Marx, attraversa e assume tutta quanta la tradizione – tutti i quanti i «dogmi» – proponendosi di verificarli prima per poterli meglio rovesciare poi. È a questa pratica illuminista – il cui sabotaggio foucaultiano, sotto l’etichetta di «ontologia del presente», è fin troppo noto perché metta conto ricordarlo – che Stefano Rodotà si è sempre orgogliosamente richiamato.
E NON È UN CASO che a essa decise di intitolare una delle sue imprese editoriali più felici e forse più importanti: la fondazione e la direzione della Rivista critica del diritto privato. A poco più di un anno dalla sua scomparsa, Guido Alpa e Maria Rosaria Marella – che della Rivista è oggi la direttrice – hanno deciso di orchestrare una silloge degli Editoriali e dei Saggi destinati da Rodotà alle pagine della Rivista. Si comincia nel 1983 e si finisce nel 2016 per il volume appena edito da Jovene e con il titolo rispondente di Critica del diritto privato, pp. 362, euro 36). A essere insieme oggetto e soggetto di critica – secondo la felice indistinzione tipica del genitivo – non è in questo caso né la conoscenza e neppure l’economia politica, ma un sapere e una tecnica apparentemente più esotica e grigia: il diritto privato.
IL DISPOSITIVO critico gli si applica tuttavia secondo gli stessi protocolli e in accordo alle medesime procedure: è ossessiva, nelle pagine di Rodotà, l’immagine di un diritto privato insieme «depositario» e «prigioniero» della sua storia.
Proprio di questo paradosso è questione in ogni luogo del volume: l’esibizione, operata attraverso una certosina storicizzazione delle sue categorie, del carattere di indiscernibilità che corre tra tecnica e ideologia, efficacia e intelligenza di un sapere. Ha così occasione di sciogliersi l’equivoco singolare cui Rodotà era spesso, e suo malgrado, protagonista: quello di essere confuso, da civilista che era, per costituzionalista. Ciò fu possibile perché il diritto privato pensato e praticato da Rodotà è in tutto e per tutto un diritto civile: le sue categorie più proprie, le sue tecniche più tipiche, i suoi modi più riconoscibili di operare non sono quadri appesi al museo del sistema ma esistono davvero solo quando sono attivati, mobilitati, criticati, sabotati e rifunzionalizzati, misurati e configurati secondo gli urti con quel «movimento ineguale, irregolare e multiforme» che è la vita comune delle donne e degli uomini.
PERCIÒ LA LETTURA incrociata di testi programmatici, che hanno il piglio del manifesto, ma conservano il nitore e la sobrietà così tipica del ductus rodotiano, e quelli più distesi che propongono colpi di sonda su un caso, una querelle di metodo o una diagnosi di fase, fanno di questa raccolta un vero e proprio regesto, una summa, un repertorio delle pièces de résistance della sua traiettoria intellettuale (così come della sua sterminata cultura): la proprietà, «le frontiere dell’appropriabilità» e i «riferimenti non proprietari», la responsabilità civile come cerniera tra forme di vita e modo di produzione, le metamorfosi del contratto tra principi e clausole.
Ma di là dalla messe tematica – dai mutati rapporti tra politica e giurisprudenza al ruolo della tecnica, dalla bioetica alla biopolitica, dai diritti alla dignità – è l’unità di metodo a fornirne insieme il sigillo e il blasone: una strenua, paziente, meticolosa guerriglia contro la «tecnica della fattispecie chiusa», una pratica dell’alterazione costante dell’isolamento dogmatico alla luce di altri saperi, la possibilità, infine e soprattutto, di approdare a un diritto privato non patrimoniale non già abdicando alla sua potenza tecnica ma al contrario attingendo, secondo il modo della critica interna, «dentro e contro», alle sue risorse operative più proprie e speciali.
IN ULTIMA ANALISI è in questo ritmo che separa e unisce la vita e le forme che andrà riconosciuto il filo rosso del volume. Tutte le scene che lo compongono sono dominate dal rapporto tra la materialità (dei bisogni, dei corpi, dei desideri) e la loro formalizzazione possibile: è il rapporto tra l’esistenza sans phrase e le tecniche molteplici della sua messa in forma a essere cruciale e a sintetizzare lo stesso passo metodologico così come l’ethos civile di Rodotà. Nell’intreccio tra forme di vita e forme della produzione che descrive il nostro tempo, il diritto privato è allora quella tecnica capace di istituire la potenza – o la dignità – della cooperazione sociale e dei suoi prodotti.
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