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Quel mese inutile a Daharan

Quel mese inutile a DaharanEttore Mo nel 2012, foto di Giovanni Mereghetti /Getty Images

Dall'archivio Ripubblichiamo dall'archivio del manifesto un articolo di Ettore Mo del 10 febbraio 2005. Iraq 2005, Desert Storm e il rapimento di Giuliana Sgrena

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 11 ottobre 2023

*Ripubblichiamo dall’archivio del manifesto un articolo di Ettore Mo del 10 febbraio 2005.

È una constatazione amara, anche se ovvia, e che tuttavia deve essere fatta: il mestiere di inviato nelle aree «calde» del mondo, soprattutto in quelle dove sono in corso conflitti armati, diventa sempre più difficile. E quanto è successo a Giuliana contribuisce a richiamare urgentemente l’attenzione sull’argomento: ed è motivo di riflessione per tutti noi che, come si dice in gergo, «frequentiamo le guerre».

L’esperienza dei colleghi impegnati nell’ultimo conflitto iracheno non lascia dubbi sul fatto che i cronisti scendono in campo (per usare un’espressione coniata da Mimmo Candito) «con le mani legate dietro la schiena». Condizionati da tutta una serie di veti, regolamenti, censure da parte delle autorità militari, sono quasi ridotti all’«impotenza», come qualcuno di loro ha denunciato, dovendo imbastire reportage prefabbricati senza l’apporto della testimonianza diretta: che è come dire due colonne di aria fritta.

Dalla polemica esplosa il mese scorso sui giornalisti «embedded» (cioè di soldati col computer incastrati nella struttura militare) è emerso che le disposizioni impartite per controllare le pattuglie disarmate di reporter e operatori tv erano tanto severe e intransigenti da togliere anche quel minimo margine di libertà d’azione e di intraprendenza, che consente alla cronaca (quella «vera») di sopravvivere.

Inviati e troupe televisive si son dovuti rassegnare a seguire e, dunque, a «raccontare» la guerra dalle finestre dei due alberghi di Baghdad dov’erano confinati e che erano fra l’altro presidiati dai comandi militari alleati: si trattava (si tratta) tutt’al più di riciclare voci e notizie filtrate in qualche modo da agenzie di stampa locali o internazionali. Chi osava scendere in strada per dare un’occhiata fresca, lo faceva a proprio rischio: come è avvenuto per l’inviata de il manifesto.

L’imbavagliamento della stampa, sostengono i più, è una cosa del tutto normale in una situazione di guerra: ma, ad esempio, dalle testimonianze di molti colleghi e reduci del conflitto del sudest asiatico emerge che anche in Vietnam gli inviati dovevano attenersi al «briefing» quotidiano in un albergo di Saigon, poi però ognuno era libero di ficcare il naso dove volesse. E fu così che l’indimenticabile Egisto Corradi inviò al Corriere una mirabile corrispondenza sulla battaglia di Khe Shan.

Al contrario, durante la guerra del Golfo, nel `91 – dove ho conosciuto Stefano Chiarini -, il comando militare americano adottò misure estremamente severe e restrittive verso la stampa. Si voleva evitare – lo abbiamo subito capito – che gli organi di informazione provocassero nell’opinione pubblica internazionale la stessa reazione di disagio e condanna che avevano suscitato in tutto il mondo per l’intervento in Vietnam.

Laggiù, come in Iraq oggi, avevano le mani legate dietro la schiena. Io mi trovavo a Daharan, nell’Arabia saudita, dov’era in corso l’operazione Desert Storm per liberare il Kuwait e ricacciare gli iracheni di Saddam Hussein dentro i propri confini.
Per le informazioni, si poteva solo attingere alle fonti ufficiali. Per uscire dalla città occorreva l’autorizzazione dell’autorità militare. Difficilissimo avvicinarsi alla prima linea, ogni nostro spostamento avveniva sotto scorta. Nei bollettini di guerra, il computo delle vittime riguardava quasi esclusivamente i «nemici».

Apparentemente, non c’erano mai né morti né feriti, tra gli alleati: e comunque non ce li lasciavano vedere. La sola attività bellica che ci era dato contemplare era quella aerea: quando, di notte, i famosi Patriot disintegravano in cielo i missili Scud in arrivo dall’Iraq.

La sera, quando arrivava la fissa del giornale, eravamo alle solite. Allora, cosa ci racconti oggi? Oggi? Niente di niente, come ieri. Sono stato circa un mese a Daharan: le quattro settimane più inutili e frustranti della mia vita professionale.

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