Tra il primo pensiero d’una impresa terribile e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro non privo d’ingegno) l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure». Gramsci che studia Manzoni che cita Shakespeare possono essere un buon inizio per scrivere di Interventi ed erratiche esplorazioni sull’arte di Giorgio Di Genova (Gangemi, pp. 240, euro 32).

QUELLO CHE SI LEGGE attraverso la raccolta di questi interventi, saggi, interviste, recensioni che coprono circa cinquant’anni di lavoro è davvero un’impresa terribile per i molti, importanti e faticosi impegni che l’autore si è prefisso per sé e per chi lo avrebbe letto, per coloro ai quali ha insegnato. E quegli impegni sono fantasmi nel senso greco del termine, non quindi una «inarrestabile invasione dell’apparenza», come Di Genova stesso scrive, ma la necessità di mostrare sempre cosa abbia innervato la sua ricerca, il suo fare critica e storiografia. E una tale necessità di coerenza non può che incutere un certo timore anche a chi se ne assuma la responsabilità.

IMPOSSIBILE MISURARSI con l’imponente singolarità degli interventi del volume che costituiscono una vera esplorazione dei quattro punti dell’universo della storia e della critica d’arte, in un dialogo serrato che si allarga dal Divina Proportione di Luca Pacioli al Futurismo, dall’Iperrealismo alla lettura psicoanalitica, o meglio del perturbante, di artisti quali Mondrian, Giacometti, Warhol, fino ai nodi cruciali del dibattito critico quali la reale possibilità di una critica marxista, il linguaggio della critica, il costante interrogativo se fare il critico e lo storico dell’arte non sia servire l’idea di esclusività borghese del fare arte, fino alla ancora rovente estetizzazione del gesto politico.

UNO SFORZO di costruzione del mondo che, in giorni sempre più devoti all’esplorazione di microcosmi di frequente racchiusi nello spazio angusto di una manciata di anni, è quasi da vertigine. Una costruzione che pure, a libro chiuso, mostra tutta la sua compattezza teorica condotta lungo un filo che è, appunto, tutto gramsciano. Il continuo intrecciarsi, come si evince da molti saggi, di analisi storica e critica, di una critica che riflette, che ha sempre negato ogni flessione all’intrattenimento, che è riflessiva, mira attraverso l’arte a costruire senso, concezione del mondo.

L’AUTORE SI DEFINISCE scrittore e a prima vista potrebbe sembrare una civetteria, ma in realtà non mente, poiché in una attività tanto lunga e complessa, ha puntato molto della sua ricerca proprio sulla capacità del linguaggio e della scrittura di creare una concezione del mondo, sia esso anche solo (e solo ovviamente è qui uno scherzo) artistico. Per Giorgio Di Genova c’è una sorta di rovello del significato, dove la scrittura è creazione di una materia sempre percepibile e dicibile, la cui capacità comunicativa deve essere continuamente misurata, vagliata, riaggiornata in una continua rappresentazione di cui l’intelletto umano è il regista.

NELL’OPERA D’ARTE e nell’imprescindibile lavoro di mediazione della critica, avviene la scoperta che la caduta dell’artistico in sé e per sé, l’uscita dell’arte dal cultuale, può diventare apertura di uno spazio di possibilità, che è politicizzabile, nel senso di poter diventare un’etica conforme. In un’epoca che vive erroneamente la disintermediazione come una conquista di libertà assoluta, che rivendica un’effimera presa diretta con il fatto, sia esso politico, artistico, culturale più in genere, il libro di Di Genova, proprio perché attraversa per intero decenni così cruciali intorno al senso dell’essere critico, mostra l’ingannevolezza di quella falsa conquista.