Visioni

Quel gioioso ritmo in levare tra spiritualità e battaglie sociali

Quel gioioso ritmo in levare tra spiritualità e battaglie socialiUn murales di Bob Marley a Kingston – foto di Jewel Samad/Afp

Musica L'Unesco inserisce il reggae nella lista dei beni immateriali dell’umanità «per il suo contributo al dibattito internazionale su questioni di ingiustizia, resistenza, amore e umanità»

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 30 novembre 2018

Get up, stand up/ stand up for your rights/ get up, stand up/don’t give up the fight. L’incipit di un famoso inno di Bob Marley, il profeta della musica giamaicana, l’icona della rivoluzione terzomondista (suonò alla festa d’indipendenza dello Zimbabwe nel 1980), il simbolo della liberazione dalla schiavitù, riscatto vivente degli oppressi di tutto il mondo, che sognano cantando una Redemption song. Con la sua maglietta da calcio, i dreadlock lunghissimamente selvaggi e l’enorme joint tra le dita, Marley probabilmente sorriderà, in quelle vaste praterie tropicali dove si trova post-mortem, del riconoscimento arrivato ieri dall’Unesco che ha inserito il reggae nella lista dei beni immateriali dell’umanità «per il suo contributo al dibattito internazionale su questioni di ingiustizia, resistenza, amore e umanità».

COSÌ come il jazz, il blues, il calypso, il son e altre sonorità caraibiche ogni ragionamento sul ritmo della Giamaica deve tener conto della diaspora di milioni di neri africani e del terribile fenomeno della schiavitù. Questi uomini sradicati, detribalizzati, incatenati e picchiati duramente, annullati individualmente in completa balìa degli oppressori. L’unica cosa che conservavano era l’umanità, il commento sulla pura sopravvivenza e sulla ferocia quotidiana, i loro canti e le improvvisazioni vocali per fare comunità. In qualche modo così ebbe origine il mento, la musica folk dell’isola degli indigeni Maroon, in gran parte schiavi africani fuggiaschi, costretti a rifugiarsi nelle montagne di fronte ai colonizzatori europei, prima spagnoli poi inglesi. Dopo cinque secoli di dominazione, il 6 agosto 1962 venne proclamata l’indipendenza della Giamaica. L’anno prima un gruppo importante, Toots and the Maytals, avevano inciso un 45 giri, Do The Reggay, dove il termine viene usato per la prima volta a indicare una nuova sensibilità collettiva, una nuova fusione musicale. Le radici della musica popolare caraibica cominciano a mescolarsi con il soul e il rhythm and blues, provenienti dalle radio americane, captate attraverso le radioline a transistor. E quella tradizione di fierezza spirituale nera trova sbocco nella religione Rasta, la profonda fede in Ras Tafari, l’imperatore che salì al trono d’Etiopia nel 1930 con il nome di Hailé Selassié, (ispirata dalla predicazione di Marcus Garvey, teorico del ritorno in Africa delle popolazioni nere), credo dichiaratamente pacifico, universale e meditabondo, predicando amore, unità e solidarietà, grazie all’utilizzo della marijuana, altro mezzo per avvicinarsi a Jah e fuggire il mondo corrotto di Babilonia. Nato nei quartieri poveri di Kingston negli anni ’60, sulle ceneri di ska e rocksteady, altri generi fortemente ballabili e innovativi, il reggae riflette le difficili condizioni di vita dei rude boys, i teenager in perenne conflitto con povertà e criminalità, le loro battaglie impossibili e la profonda spiritualità ma anche un senso gioioso dell’esistenza col suo tipico ritmo in levare, modulato sul respiro e il battito del cuore, un sound ipnotico e contagioso, struggente e melodico, la colonna sonora di numerose culture giovanili, in Uk e in Italia, in Scandinavia e in Oceania.

REGGAE, musica dei ghetti, delle epiche battaglie sonore condite di sound system e dub. I sound system venivano dalla strada, da quelle riunioni improvvisate con un selecter (un deejay che sceglieva i dischi e talvolta inventava qualche discorso per cucirli assieme), qualche 78 e 45 giri e due casse che diffondevano il ritmo potente a isolati di distanza, facendo vibrare i vetri delle case. Il dub nasce generalmente come lato b del singolo principale, creato con reverbeberi, echi, altre manipolazioni per essere ancora più strumentale e «sporco». Proprio l’incontro tra il Rastaman Bob Marley e l’uomo d’affari inglese, Chris Blackwell, proprietario dell’etichetta discografica Island, fece decollare la «musica ribelle della Giamaica», accentuando il contenuto politico e sociale delle sue canzoni, da Exodus a Burnin’, diventate successi planetari.

E TUTTE le altre grandi star che hanno continuato a propagandare quel sogno di libertà, amore e solidarietà universale, da Peter Tosh e Bunny Livingston, i suoi compagni nei Wailers, registrati negli studi di Clement Dodd, un sound system col nome di Sir Coxone (e il suo rivale, Lee Scratch Perry), poi rinforzati dai cori delle I-Three, Rita Marley, Judy Mowatt e Marcia Griffith. E tantissimi altri, da Gregory Isaac a Big Youth, da Jimmy Cliff a Desmond Dekker. Il reggae sbarcherà poi trionfalmente in Europa e principalmente nelle grandi città inglesi, influenzando band come Police e Clash, Specials e Madness, facendo nascere movimenti Two Tone e tutti i suoi succedanei attuali, dalla dancehall al reggaeton, dalla jungle al rap, in qualche modo figli di quella musica e di quella piccola isola con soli tre milioni di abitanti.

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