Quel doppio vincolo tra soccorritore e naufrago
Commento Stare da una parte o dall’altra non è questione di merito. Tra chi vive e chi muore, chi lotta per la vita e chi corre in aiuto, si forma un legame indissolubile in cui la distanza tra esseri umani si annulla e la coscienza si lega per sempre
Commento Stare da una parte o dall’altra non è questione di merito. Tra chi vive e chi muore, chi lotta per la vita e chi corre in aiuto, si forma un legame indissolubile in cui la distanza tra esseri umani si annulla e la coscienza si lega per sempre
Le salme della tragedia del canale di Sicilia, come è avvenuto in occasione del naufragio dell’11 ottobre 2013, saranno separate dai superstiti. Non sappiamo ancora, ma è certo, che tra i sopravvissuti ci siano persone che hanno perduto amici e familiari.
I regolamenti, quando si tratta di morti in mare, sottovalutano l’importanza di una separazione rituale tra i vivi e i morti, di questa conta tra sommersi e salvati come già diceva Levi riferendosi alla sua stessa esperienza. Il 3 ottobre 2013, a Lampedusa, le istituzioni discutevano sull’opportunità di comunicare ai superstiti la partenza delle bare dal porto, direzione Agrigento, per timore di incorrere in problemi di «ordine pubblico». Il disordine che si sperimentava nell’isola consentì fortunatamente ai superstiti di venire a conoscenza dell’orario in cui le bare sarebbero state caricate, una ad una, sulla nave e di salutarle, una ad una.
Nonostante questo, non ci illudiamo, per i sopravvissuti – termine pallido e romanzesco – da oggi non inizia una nuova vita ma una convivenza obbligata e insidiosa con la morte. Perché i morti, le persone affogate, se li porteranno sempre addosso, come una scimmia che a giorni non li farà respirare, che li priverà, a momenti, della capacità di provare piacere. Un senso di morte sottile, una pellicola grigia che non li abbandonerà mai e che a giorni non darà loro tregua. Nel corso della propria vita, a quei morti dovranno rendere molti tributi. Con quei morti costruiranno un dialogo interiore serrato, sulle questioni più intime.
Alcune domande, senza risposta, che assediano i sopravvissuti sono: perché io sono sopravvissuto e lui no? Non lo meritava forse più lui di me? Ogni volta che quest’uomo e questa donna, ma anche questo bambino farà una scelta, si dovrà chiedere se la stia facendo al meglio, nel rispetto non soltanto della propria vita ma anche della vita dell’altro, di quello che sarebbe potuto sopravvivere al posto suo.
Che vincolo si rompe, quindi, nel momento in cui i cadaveri e superstiti sono separati gli uni dagli altri? Nessuno, se ne sancisce uno, al contrario, indissolubile. E qui, in questo ordine di riflessioni e di azioni conseguenti, entra in gioco il ruolo primario, primario perché è la prima persona ad interagire con questo vortice emozionale, del soccorritore. C’è una foto nella quale si vede un soccorritore, coperto con la sua divisa bianca, sdraiato accanto ai superstiti, come loro esausto e svuotato.
Quella vicinanza, quella prossimità, è probabilmente il legame più stretto e incomprensibile – o comprensibile solo nel lungo periodo- che quelle persone sperimenteranno. Anche quel legame non si potrà più rompere. Per chi è in grado di andare oltre la biopolitica che lega in un legame tragico profitto e migrazione, ordine pubblico europeo e disordine internazionale, la veste bianca non proteggerà il soccorritore da questa strana alleanza, ma genererà la familiarità che si crea inevitabilmente tra lui e le persone che ha salvato.
In questi casi, allora, e qui il gesto diviene politica, scelta compromissoria, alterità, il salvataggio non è mai a senso unico ma è sempre reciproco. Il soccorritore è grato a chi riesce a salvare, al contempo ogni volta che vede le persone vive accanto a lui, pensa ai morti, alle persone che non ha potuto recuperare, ai volti galleggianti, all’odore della carne che inizia a putrefarsi in mare, ai pesci che divorano gli occhi dei cadaveri, ai ventri gonfi. Ed è grato, grato di potere toccare, stare accanto ai superstiti, non sa bene perché, ma li sente come un muro che lo separa dalla morte, asciutta, liscia e nera.
Questo senso profondo di appartenere alla stessa vita, di essere in vita insieme è la radice di una solidarietà che non è pietosa ma empatica, di una politica di accoglienza verso altri se stessi e non di semplici corpi da parcheggiare in attesa che vadano altrove.
In questi momenti, per chi si immedesima nel gesto del soccorso, la distanza tra esseri umani si annulla. Non esistono più «il migrante» ed « il soccorritore», l’ordine simbolico e politico della relazione dato dallo svolgere funzioni precise annulla la distinzione, ricompone l’umanità divisa. Gli interrogativi – non pensabili e tanto meno ordinabili in frasi compiute- sul senso dell’esistenza ma soprattutto sulla «disumanità dell’umano» sulla «banalità del male» vincolano sguardi e mani alla ricerca di risposte che non arriveranno o che si troveranno forse dopo molti anni, nei momenti di vuoto inspiegabile ma immanente che attraversa tutta la nostra civiltà in crisi e che ci riporterà però sempre a quel mare, a quelle morti. Tutto il resto, per chi vive in prima persona la morte e la salvezza, è solo chiacchiericcio di matrice intestinale, che non coglie il senso di quanto avvenuto: un miracolo che avrà per sempre un rovescio amaro.
Il rovescio di questo miracolo sono le immagini delle persone che si aggrappano le une alle altre, il loro avere tentato di salvare qualcun altro oltre se stessi, le grida, la scelta di nuotare lontano dai grappoli umani che si formano intorno a chi sa tenersi a galla e che inevitabilmente viene trascinato nel fondo del mare.
L’ordine apparente e razionale, il discorso politico prevalente, il contegno di circostanza con cui si parla di tutto questo è penosamente falso, volto a mostrare al mondo le mani pulite e ad occultare in un minuto di silenzio più che a realizzare quanto effettivamente è avvenuto. Per questo certi termini propri del vocabolario dell’ingerenza umanitaria diventano odiosi, perversi: chi si appella all’umanità vuole imbrogliarti diceva già Carl Schmitt; chi lo fa in mala fede, senza voler cioè andare alla radice economica delle cose, fa finta di non ricordare che l’Uomo è anche quello che lascia morire migliaia di persone in mare.
Vengono in mente le parole di Bertold Brecht: «il disordine ha già salvato la vita a migliaia di individui. In guerra basta spesso la più piccola deviazione da un ordine per portare in salvo la pelle». In queste guerra mai dichiarate, senza confini né limiti temporali e geografici, chi dà gli ordini, chi li esegue? Forse, per trovare nuove soluzioni, occorre farsi carico del disordine, della rottura degli argini tra chi salva e chi è salvato, dato che stare da una o dall’altra parte della barricata è solo questione di fortuna e non di merito.
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