Visioni

Quel dolce sentimento vintage

Star Wars Il ritorno della leggenda e le nuove generazioni

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 17 dicembre 2015

Il passaggio di consegne è avvenuto, e nessuno poteva riuscirvi meglio di J.J. Abrams. L’abile regista di Super8, maestro di reboot, con Star Wars: Il risveglio della Forza è riuscito (almeno secondo i molti commenti in rete e gli applausi a scena aperta durante la blindatissima proiezione stampa romana) a rendere felici se non tutti molti giovani e vecchi fan. Questi ultimi commossi almeno dal ritorno dei loro eroi della giovinezza, Han Solo e la principessa Leia (o Leila) Organa, ovvero Harrison Ford e Carrie Fischer, i robottini di prima generazione, Chewbecca e il Millennium Falcon la cui apparizione sull’orizzonte dell’immaginario era stata nel lontano ’77 una vera deflagrazione. E i trentenni di oggi dalla presenza finalmente «reale» dei loro miti. Anzi di più: quel passaggio di cui sopra che è un passaggio tra padri e figli nel quale, e senza fare spoiler, i figli devono uccidere «freudianamente» i padri (è ancor prima Edipo ma Abrams è maestro del mash-up) è narrato dal punto di vista dei ragazzi, coloro che saranno i protagonisti dei prossimi episodi, risucchiati nel lato oscuro o illuminati dalla forza della luce, che come i milioni di fan loro coetanei sono cresciuti con lo stesso mito. Si illuminano gli occhi di Rei – Daisy Ridley – quando Han Solo si palesa. Sa tutto di lui, è il padre mancato in un’infanzia di solitudine ma è soprattutto la leggenda.

 

 

Star Wars: Il risveglio della Forza è dunque un capolavoro della poetica vintage millennium, la nostalgia per qualcosa che non si è vissuto ma che è diventato parte dell’esperienza. E funziona, funziona sempre, perché solletica quel dolce/amaro della nostra memoria mediatica di consumatori materiali e immateriali, immersi nel flusso delle ondate e dei ritorni (eterni).

 

 

Oltre la lotta tra Bene e Male a colpi di spade laser, e all’Edipo viene qui sancito, e molto meno simbolicamente, il passaggio dalla Lucasfilm alla Disney per quattro miliardi di dollari, con un nuovo programma seriale le cui scadenze, tra prossimi capitoli e un’«Antologia» (senza sottovalutare il merchandising) sono già programmate fino al 2020. E questo Abrams lo delinea con estrema e concretissima precisione.

 

 

Solo, Leia (i nomi inglesi nei pasticci del doppiaggio italiano davvero respingente) sono scassati, un po’ invecchiati, eppure hanno ancora quell’aura non conformista, di rivoluzionari contro i proibizionismi (gli uomini macchina senza sentimenti né sesso progettati dall’Impero) dello spazio galattico di cui conoscono i nervi segreti, le taverne dei piaceri e dei peccati (fa sempre piacere tornarci …). E forse per questo appaiono così lontani, remoti quasi, in un presente che privilegia le superfici lucide e senza crepe.

 

 

Star Wars con le sue sciabolate luminose sullo schermo che precorrevano il digitale in anni analogici, e i titoli danzanti sull’epocale colonna sonora di John Williams, era la sfida a un sistema di un cinema indipendente, della New Hollywood alle major sul loro terreno.
C’è tutto questo nella percezione vintage tramandata per generazioni? O piuttosto nella «nostalgia» rimane solo la voglia di tenerezza per un mondo lontano, trasformato in gadget, e di cui si salvano le cose che funzionano, che rassicurano, quanto è ormai parte del sistema acquisito e digerito da esso?

 

 

Forse è per questo (anche) che i vecchi eroi tornati dopo i prequel appaiono tanto a disagio. Abrams però è rottamatore sopraffino, a differenza di quello nostrano i miti li tira dalla sua parte per commuovere e per consolidare la propria opera. Quello che abbiamo visto è totalmente dentro al sistema, senza nessuno strappo. Conta qualcosa? Probabilmente no. Resta il fatto che la Forza scivola via come il ritornello di una vecchia canzone che siamo abituati a sentire nelle musichette delle sale d’aspetto o in ascensore. Chissà cosa era prima!

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