Da molto tempo Nadia Fusini affianca al suo lavoro di lettrice appassionata e studiosa rigorosa quello di scrittrice di finzione, intrecciando due registri di scrittura che si guardano l’un l’altro allo specchio. Forse non è un caso che Fusini sia anche una sofisticata traduttrice, perché proprio su quel terreno si incontrano, come nel suo caso, l’abilità critico-intrepretativa e quella dell’invenzione linguistica; tradurre le ha insegnato a pensare narrando e a narrare pensando. Alle sue spalle, nello scorrere da un piano all’altro, dalla riflessione all’invenzione, c’è una maestra meravigliosa e inarrivabile, Virginia Woolf, cui Fusini ha dedicato anni di riflessione e studio, e basti qui ricordare nei Meridani Mondadori i due volumi a lei dedicati e che hanno fatto scuola.
Questi i pensieri durante la lettura di Cretaure in bilico, da poco in libreria per Einaudi (pp. 192, euro 16). Ci si può chiedere da dove vengono le donne che abitano questi undici racconti, che arrivano tutti da uno sfondo molto ampio, lontano e vicino, tessere di un mosaico costruito in anni di lavoro tenace e curioso del conoscere per se stesso, vivi di pura passione conoscitiva. Pur nella sua ovvia e necessaria autonomia poetica, questo piccolo libro presenta diverse possibili letture se lo si immette nell’onda lunga che lambisce una penisola che possiamo ricostruire a partire da Shakespeare, tocca Woolf, la poesia, il rapporto fra donne e uomini, l’arte visiva, la finzione. Da ogni costa si avvista qualcosa, da Shakespeare (tradotto e commentato) Maestre d’amore e Vivere nella tempesta, da Woolf (tradotta e commentata) Hannah e le altre, Virginia Woolf A-Z, Un anno con Virginia Woolf, Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing life, e poi il modernismo, la poesia di Keats e Emily Dickinson, Beckett e Bacon, Kafka, le scrittrici di Nomi, la Fedra Luminosa. E ancora le biografie Lo specchio di Elisabetta (Elisabetta I), La figlia del sole (Katherine Mansfield), Possiedo la mia anima (Woolf), obliqui «romanzi» animati dalla vita stessa dell’autrice, ponti di un dialogo ininterrotto e sempre rilanciato oltre se stesso.

QUESTO APPARENTE ELENCO di libri, incompleto per di più, ci dice da dove vengono le protagoniste di questa recente raccolta, Creature in bilico, tutte, a modo loro, viandanti, avvistate da un occhio differente, abitanti di un mondo a parte, e avvitate intorno a temi con due caratteristiche, il tono del racconto morale e lo stile, da breve conte philosophique, dell’interrogazione continua, incalzante, priva di risposte definitive. Libertà e desiderio, amore e patologia, azione e non-azione, visibile e invisibile, dolore e morte, presenza e assenza, si offrono non nella loro inconciliabile dualità ma nel corpo di ciascuna protagonista, riguardata come una sovrana, un’antica divinità, anche ove potrebbe apparire nella sua spoglia miseria.
Uno stesso filo linguistico tiene insieme Gina e Giulietta, due homeless, Cecilia che vede perché è cieca e perché il parlarsi fra donne «ha la funzione che hanno le frasi quando diventano mani che spingiamo in avanti per toccare chi ancora non conosciamo», Ninfa, o dell’«epifania della nascita della vita», quell’attesa dello scomparire e ricomparire delle ninfee che ha visto Claude Monet dipingere lo stesso soggetto per oltre vent’anni della sua vita, Ada col suo dolore perché «cercare la verità delle cose» è un lusso per chi non ha un proprio posto nel mondo. E Caterina, cui nessuno dà mai retta, per tutti invisibile, modesta, prodiga di quell’amore oblativo di cui nessuno è mai riconoscente e che non la fa riconoscere da nessuno, Caterina così sola da voler morire senza neppure sapere però come si fa a morire; e ancora Teresa, che migra qui e là, capace di lasciare «tutto, baracca e burattini», e accettare lo scandalo di essere solo una «sopravvissuta».

CHE SI CHIAMINO ognuna con nome diverso, a guardarle c’è comunque uno sguardo sdoppiato, quello dell’autrice: è lei che guarda ed è lei che è riguardata e così vede l’invisibile, il segno segreto di ogni nostra quotidianità. In questo libro di incontri, non c’è diaframma, distanza tra colei che narra e colei che è narrata, ma non si tratta di coincidere, si tratta del fatto che nei romanzi, e nei racconti, vive una strana alchimia che «fa degli esseri fittizi gli involucri della nostra coscienza», come dice Peter Brooks pensando ai lettori: rubo volentieri la sua riga perché mi permette di definire come racconti morali proprio questi tra le mie mani ora. È Nadia Fusini che qui si sparpaglia attraverso tutte le altre, guardate con amore, pietas, comprensione, paura, perché ne va della sua stessa coscienza, perché la scrittura è metamorfosi, il poeta, come le ha insegnato il suo amato Keats, è quel «camaleonte» che «non ha Identità, è continuamente intento a riempire qualche altro». È l’autrice dunque che si incarna qui in figura di racconto, raccogliendo ancora una volta l’eredità di Virginia Woolf, la sua inesausta necessità di embodiment, di farsi carne nella rappresentazione dei suoi personaggi, non alla ricerca di una qualche identità, ma della propria libera soggettività. Scrivere sì del dolore, dell’estraneità, della morte, senza perdere però quella pulsione erotica tra io e mondo, la verità del mondo, che nel testo si fa scrittura dell’altra, dell’altro.