Quel che vedo e sento nella prima linea di un reparto Covid
Testimonianza Vestirsi con i dispositivi di protezione personale per visitare i pazienti COVID è come prepararsi a un tuffo: come mettersi un costume prima di entrare in acque gelide. Cuffia, mascherina, copri-scarpe al posto delle pinne, sei pronta. Affondi nelle stanze e con il tuo speciale stetoscopio subacqueo ausculti il primo torace.
Testimonianza Vestirsi con i dispositivi di protezione personale per visitare i pazienti COVID è come prepararsi a un tuffo: come mettersi un costume prima di entrare in acque gelide. Cuffia, mascherina, copri-scarpe al posto delle pinne, sei pronta. Affondi nelle stanze e con il tuo speciale stetoscopio subacqueo ausculti il primo torace.
Da anni vostra fedele lettrice, sono una giovane specialista in Malattie Infettive e lavoro all’Ospedale Cisanello di Pisa. Quando ho scelto che avrei fatto il medico, e poi l’infettivologa, non immaginavo che un giorno avrei potuto vivere come un soldato, né come un subacqueo.
Da alcuni mesi a questa parte lavorare in reparto è come stare sempre su una vedetta di guardia, rispondere al nemico e gettarsi in mare per salvare i civili. Vestirsi con i dispositivi di protezione personale per visitare i pazienti COVID, infatti, è come prepararsi a un tuffo: come mettersi un costume prima di entrare in acque gelide. Cuffia, mascherina, copri-scarpe al posto delle pinne, sei pronta. Affondi nelle stanze e con il tuo speciale stetoscopio subacqueo ausculti il primo torace. Ecco, arriva ai sensi quel crepitio di polmoni offesi, infiammati da un fuoco invisibile che sa ardere anche in fondo al mare, che trasforma il murmure in calpestio di foglie secche d’autunno. È una vibrazione che non si può dimenticare. È l’alito stesso della vita coperto da un’interruzione non ordinaria. Gli antichi semeiologi descrivevano quel suono come lo sfregamento di una sottile ciocca di capelli fra due dita messe proprio accanto all’orecchio.
Ma non puoi perderti nelle impressioni, né nelle metafore, devi continuare a visitare, per questo avanzi a bracciate ampie, stai attenta ad ogni particolare: la temperatura, il cuore, i polsi, la pancia che sale e che scende con una frequenza da misurare. La vista è appannata dall’uso di visiere o occhialini che al soffio del respiro, questa volta il tuo, si velano per rendere opaca la realtà: questo fondale dato e negato attraverso una plastica, volendo, dal vetro dell’oblò del tuo sommergibile. Il peggio accade quando, nonostante il mare, i pazienti boccheggiano come pesci fuor d’acqua: si dimenano e quasi salterebbero sul dorso inarcato rigirandosi al sole come sardine appena pescate. L’ossigeno erogato dai rubinetti del reparto, questa grande nave naufraga di malati, non è sufficiente; l’ansia e la paura sono pronte a giocare un brutto tiro, pronte a saltarti addosso. Allora, vorresti poter spostare il tuo boccaglio immaginario dentro la mascherina del paziente, dargli un po’ del tuo respiro, così preziosamente regolare, perfino un po’ del tuo sangue, così magnificamente rosso. Ma non puoi farlo: non resta che tornare in superficie.
Lì, una volta riemerso potrai strappare via il pesante boccaglio e gridare che i pesci devono essere riportati in acqua (in altre acque?) e che per farlo bisognerà forse cambiare imbarcazione. Sì, cambiare, salpare su un nuovo mezzo che abbia una rotta diretta verso i mari del Sud, dove forse c’è speranza. Qui è davvero troppo gelido e non si può continuare a nuotare.
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