I filosofi illuministi avevano scritto molto sulla decadenza e sulla fine delle civiltà, avevano discusso e con sconvolgimento del terremoto di Lisbona del 1755, si erano interessati alle catastrofi naturali, ai vulcani e alle rovine, a cominciare da quelle di Ercolano, risultato dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Un capolavoro come il Candide, dove viene derisa l’idea del leibniziano migliore dei mondi possibili, è anche la conseguenza dell’impressione che Voltaire subì a causa di quel terremoto. E Rousseau sottolineò il fatto che la costruzione di tante case agglomerate in poco spazio aveva potuto causare tanti morti. Catastrofe naturale sì, ma a questa bisogna assommare l’incuria degli uomini. Un tema di inquietante attualità. Dopo le catastrofi vi sono le rovine, che, raccogliendo una suggestione di Donna Haraway, potremmo definire come «storie congelate». Matteo Marcheschi (Storie naturali delle rovine. Forme e oggetti del tempo nella Francia dei philosophes (1755-1812), Carocci, pp. 354, euro 37) ci offre un grande quadro storico e teorico delle rovine dalla seconda metà del XVIII agli inizi del XIX secolo.

LA ROVINA fu in quell’epoca un oggetto-laboratorio della filosofia dei Lumi, punto di incrocio tra la storia della natura e la storia degli uomini. La rovina è un passato che si deposita nel presente. In questo libro ricco di riferimenti troviamo, oltre ai dibattiti sul terremoto di Lisbona e alle rovine che lasciò, anche la storia della scoperta di Ercolano prima (una scoperta casuale dei primi del 1700) e di Pompei dopo, scoperta che, ben prima della mitizzazione romantica, aprì molti interrogativi sulle concezioni dell’antico e della storia. «La rovina di Ercolano, scrive Marcheschi, appare cioè come il luogo nel quale registri del discorso e presupposti della memoria differenti si confrontano, delineando non una direzione della ricerca archeologia – il termine stesso di ‘archeologia’, in francese, non si precisa che a partire dalla fine del XVIII secolo -, ma uno stato fluido della storia del pensiero, nel quale categorie e metodi non si sono ancora fissati». Fra coloro che andarono a visitare Ercolano, tra il 1739 e il 1740, vi fu Charles de Brosses, il quale, nel 1760, propose, in chiave antropologica e coloniale e nell’ambito della storia delle religioni, il concetto di feticismo (la parola feticcio, anch’esso di origine coloniale, è invece del 1400) che sarà successivamente ripreso e trasformato, tra gli altri, da Marx e da Freud. E naturalmente Goethe. Mentre de Brosses cercava statue e monumenti, quasi suo malgrado, si accorse che nel museo di Portici vi erano oggetti quotidiani come utensili da cucina, vasi di terra, un pezzo di pane carbonizzato, una tavola egiziana. E dopo de Brosses, Roland de la Platière riconobbe negli oggetti della quotidianità la vera portata della scoperta di Ercolano e Pompei.

DIDEROT, recensendo e criticando un libro sulle rovine di Ercolano scrive: «Quest’uomo è tutto stupito che gli antichi abbiano avuto dei calderoni, dei cucchiai, delle forchette; in una parola, egli è stupito dal fatto che avendo essi gli stessi bisogni, abbiano inventato i medesimi strumenti per soddisfarli. Non si stupirà anche per il fatto che essi avessero una bocca e un deretano?». Come giustamente fa notare Marcheschi, Diderot non critica qui la legittimità dell’interesse per gli oggetti quotidiani degli antichi, bensì «lo sguardo curioso e antiquario che non sa mutarsi in sapere, musealizzando invece l’oggetto e trasformandolo in un’eccezione e non in un frammento palpitante di storia». Assistiamo dunque alla costruzione di un sapere che, di fronte a oggetti inattesi, ha bisogno di una teoria capace di interagire con gli oggetti stessi. In questo senso l’Illuminismo si presenta come un vero e proprio laboratorio. E se dovessi indicare un filosofo che meglio di ogni altro esprime questa situazione, non avrei dubbi: è Diderot. Ma certo questo laboratorio, alla fine, non dava quelle certezze, di cui invece a torto sarà accusato l’Illuminismo, semmai poneva dubbi. E i dubbi possono stancare. Bouvard e Pécuchet, gli eroi del capolavoro di Flaubert, a un certo punto si stancarono delle epoche della natura, di Buffon, di Lamarck, di Geoffroy Saint-Hilaire (l’eroe di Goethe), di Cuvier. Flaubert guarda ,con gli occhi critici di Bouvard e Pécuchet, uomini del XIX secolo, i saperi ormai codificati e che però convivevano con lo spiritismo e i tavoli danzanti, uno dei quali sarà evocato, quasi simultaneamente, da Marx per spiegare la teoria del feticismo delle merci.

E POI CI SONO I FOSSILI e le conchiglie: oggetti depositati nello spazio ma che raccontano il tempo. Fanno parte delle rovine così come le cose prodotte dagli uomini. La rovina è una sorta di laboratorio, nel Settecento, un tentativo di porre nel tempo ciò che, nel Rinascimento, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca e Leonardo avevano proposto nello spazio con la pittura e la prospettiva lineare, ovvero un rappresentazione che si aggiunge alla natura perfezionandola. La rovina esprime un passato che vive nel presente senza però esaurirsi in esso. È come qualcosa la cui profondità temporale sta nelle trame della superficie. Come direbbe il signor Palomar: «Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile» (Italo Calvino, Palomar, Mondadori, 2015).
E poi ancora Fontenelle, lo Zadig di Voltaire, le rovine nella Rivoluzione francese in un intreccio tra passato e presente che a loro volta si tingono di futuro. E infine con Georges Cuvier si chiude una storia. Per Cuvier «la rovina non è altro che lo strumento di un tecnico e di un geometra». Si conclude così un’epoca che Marcheschi è riuscito a rappresentare, attraverso un brillante intreccio tra storia delle idee e riflessioni filosofiche, in una appassionata e appassionante storia filosofica.