Per comprendere meglio il tema della pesca illegale abbiamo intervistato Milko Mariano Schvartzman, esperto di conservazione marina. Vive in Argentina, da dove monitora lo stato della pesca industriale illecita tra Oceano Pacifico e Atlantico. Ha dedicato la vita alla salvaguardia dell’ecosistema marino e alla tutela del settore ittico. È coordinatore del progetto OceanosSanos e ha fondato da poco in Argentina il Circulo de Politicas Ambientales. I due enti mirano a consigliare e informare governi e cittadini sul tema della protezione dei mari nel settore della pesca industriale, sia dal punto di vista ambientale che lavorativo. Collabora inoltre con la Banca Mondiale, il Varda Group e il New York Times.

MILKO M.SCHVARTZMAN RACCONTA COME OGNI ESTATE le acque del Sudamerica si riempiano di vascelli per la pesca industriale in acque aperte e di quanto sia difficile monitorare flotte da 300, 400 vascelli. «I problemi principali sono due: la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (Inn) e la violazione dei diritti umani. Negli ultimi mesi ci stiamo occupando del ritorno della flotta cinese intorno all’arcipelago delle Galapagos, un problema che sussiste da ben quattro anni ed è rimbalzato solo di recente sui media internazionali».

OGNI ANNO LA STAGIONE DI PESCA NELLE ACQUE sudamericane può durare circa tre mesi, indicativamente a partire da maggio/giugno fino a settembre/ottobre. «Si pescano soprattutto alcune specie di calamari, ma la maggior parte delle navi provenienti dall’Asia cattura anche specie protette come gli squali». Il percorso segue le migrazioni del pescato: inizia in Cile, prosegue lungo le acque di Perù ed Ecuador, e arriva nella zona delle Galapagos. Una flotta normale è costituita da 20-40 vascelli, ma negli ultimi anni la Cina manda 300 navi per stagione: un numero troppo alto per l’ecosistema».

SECONDO L’ESPERTO IL PROBLEMA NON E’ SOLO LEGATO alle imprese: anche gli Stati sono corresponsabili. La nave Lu Rong Yuan Yu 999, per esempio, era stata già requisita nel 2017 dalla marina ecuadoriana, colpevole d’aver pescato delle specie protette. Alla fine dell’anno la nave era già tornata al lavoro, munita dei permessi necessari per pescare nella Zona Economica Esclusiva dell’Ecuador, oltre ad avere a disposizione la petroliera Maria Gabriela IV come appoggio per il rifornimento. Molte delle navi presenti alle Galapagos, come la Huang Pu e la Lu Rong Yuan Yu 668, hanno una lunga storia di illeciti: requisite per un mese, sono tornate al lavoro dopo il pagamento di una multa.

C’E’ POI LA QUESTIONE DEL TRACCIAMENTO DELLE NAVI. Alcune navi spariscono dai sistemi per settimane, mesi, addirittura anni. In teoria esiste un sistema ad hoc per conoscere la posizione esatta di un vascello, chiamato Ais (Automatic Identification System): si tratta di un segnale creato negli anni Ottanta per la sicurezza delle navi in mare aperto, che permette di conoscere posizione, numero identificativo, nome, perfino velocità di navigazione e peso della nave. È un segnale diverso da Gps e radar, perché permette di inserire questi dati in una rete di informazioni che può essere trasferita da un vascello all’altro. Di conseguenza, è obbligatorio tenere l’Ais sempre acceso durante i periodi di attività, ma non mancano le navi che lo spengono per far perdere le proprie tracce. «Alle Galapagos abbiamo visto come solo la metà delle navi presenti abbia l’Ais acceso. Il problema del tracciamento non è cosa da poco: senza l’Ais dobbiamo ricorrere ai satelliti, che non sono abbastanza precisi per darci prove concrete sullo stato delle attività di pesca in una determinata area».

SENZA SORVEGLIANZA I PESCHERECCI POSSONO agire indisturbati con le attività di pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata. Secondo le stime della Fao questo settore ha un valore di oltre 10 miliardi di dollari, senza calcolare i guadagni aggiuntivi che molte compagnie riescono a ottenere con il traffico di droga o l’abuso della manodopera. La soluzione potrebbe essere nella prevenzione. Ma non è semplice. «Mandare in mare aperto un contingente militare per controllare i vascelli è un’attività costosa e rischiosa: le acque sono difficili da navigare, i vascelli spesso difficili da avvicinare con le buone maniere. Il protocollo in queste situazioni è molto chiaro: prima viene inviata una richiesta di ispezione. E qui già parte delle navi inizia, semplicemente, a scappare senza dare risposta. La marina deve quindi passare alla fase 2, inseguire la nave, provare quanto possibile di ottenere una risposta: se questo non avviene, si è autorizzati a sparare dei colpi preventivi in acqua. Se ancora il vascello continua a fuggire, la marina ha diritto a puntare verso le parti vitali della nave, in modo da danneggiarla e impedirle di proseguire. Il problema è che, arrivati a questo punto, molte navi rispondono al fuoco: ogni anno si conta almeno uno di questi episodi nelle nostre zone».

NON TUTTE LE NAVI POSSONO PERMETTERSI di scontrarsi con i mezzi della marina. Alcune flotte utilizzano una strategia alternativa, lasciando che una sola nave venga rintracciata e requisita in modo da permettere alle altre di allontanarsi. Questo fenomeno ha forti implicazioni geopolitiche: poiché le compagnie per la pesca industriale sono finanziate dal governo o sono a parziale partecipazione statale, significa che potenziali screzi tra le flotte e le forze armate locali costituiscono una provocazione tra stati. E qui ritorniamo alla questione della complicità dei governi nel settore della pesca illegale. «Il fatto stesso che la Cina non imponga alle sue navi di rispettare le regole costituisce una violazione del diritto internazionale dei mari da parte di uno stato. È una cosa molto grave».

LA MANCANZA DI ISPEZIONI REGOLARI E APPROFONDITE nei porti sudamericani è un altro fattore che impedisce la tutela dell’ambiente e delle persone. Milko Schvartzman e il suo team per OceanosSanos hanno lavorato per anni al caso del porto di Montevideo, in Uruguay, dove continuano a emergere casi gravi di violazione dei diritti umani. Quasi tutte le navi che transitano nel porto sono straniere, o sono state acquistate da compagnie estere. «I controlli sono praticamente assenti. Sul totale delle navi che si trovano al porto nel giro di un anno, ne viene controllato solo il 10%. Tra questi non figurano mai vascelli cinesi, anche se costituiscono la maggioranza delle navi in transito. Inoltre, nessuna azienda per la gestione dei documenti e dei permessi è controllata dal governo locale. Sono tutte sotto il controllo di imprese straniere, mancano forme di prevenzione e controllo degli illeciti».

LE UNICHE GARANZIE CHE RIMANGONO AI CONSUMATORI sono l’affidamento alle certificazioni sulla filiera, oggi promosse anche da enti privati sostenuti dalla Fao a fronte della mancanza di chiari impegni da parte di alcuni governi. Ma, allo stesso tempo, il boom di certificazioni lascia molti attori della filiera nella confusione. La pesca illegale non si limita a contribuire alla distruzione degli ambienti marini, con la cattura dalle 11 mila alle 25 mila tonnellate di pesci e crostacei in un anno. I pescherecci coinvolti nella pesca industriale sono dei veri e propri bacini di schiavi, lavoratori che vivono in condizioni sanitarie precarie, senza tutele e spesso senza identità. In 52 mesi le navi attraccate a Montevideo hanno riportato 53 decessi.

NEL 2017 UNA DELEGAZIONE INDONESIANA era arrivata al porto per scoprire la causa della morte di un marinaio che lavorava sul peschereccio taiwanese Yun Mao 168. Si scoprì che il capitano della nave aveva ignorato le condizioni di salute dell’uomo e non aveva richiesto assistenza: in dieci giorni quello che sembrava essere un forte mal di denti aveva ucciso un uomo nel silenzio delle autorità. I pescherecci che navigano le acque nel sud di Pacifico e Atlantico nascondono spesso carichi di droga: nel 2018 proprio a Montevideo è stata registrata una nave che conteneva un carico record di 400 chili di cocaina.

L’INDUSTRIA DELLA PESCA E’ UN BUSINESS AL RIBASSO, che apre una finestra di opportunità non solo alla pesca illegale, ma anche ad altre attività illegali. «Tracciare, contrastare e monitorare sono alcune delle soluzioni possibili. Senza prevenzione e senza seri disincentivi non sarà mai possibile eradicare il problema degli illeciti in acque aperte».