Un piccolo distretto operoso, puntellato di piccole e medie imprese a conduzione quasi familiare, con una forte etica del lavoro, quasi auto-sacrificale. Di recente balzato agli onori delle cronache per la morte di un’operaia del tessile. È questo lo sfondo per una piccola storia d’amianto e morti operaie, tra i lavoratori più umili del tessile, i cernitori che ancora negli anni Ottanta stracciavano a mano i panni da trasformare in lana rigenerata. È una storia vecchia, ma purtroppo attuale, perché parla di amianto. Con l’amianto si muore anche quarant’anni dopo che l’assassino ha abbandonato la scena del crimine e le storie d’amianto si leggono come cold case.
Ma cominciamo dalla fine. Un giorno caldo di fine luglio, nel 1985, in una serie di aziende del distretto pratese si presentano i funzionari dell’Usl n° 9 per un’ispezione. I risultati sono sorprendenti, per un’industria in cui non si lavorava amianto: «Nel corso dell’indagine fu scoperta la presenza in cernita di un rilevante numero di sacchi di polipropilene tessuto che sulla superficie esterna recavano la dicitura Asbestos con l’indicazione del paese di provenienza (Canada, Usa, Urss, Australia, Sudafrica) e le avvertenze in lingua inglese circa la pericolosità del loro contenuto. Questi sacchi avev ano contenuto precedentemente amianto importato da fabbriche italiane di cemento-asbesto (zona di Reggio Emilia) e, dopo essere stati svuotati, erano ceduti alla cernita. Gli involucri venivano utilizzati nell’azienda tessile per l’imballaggio degli stracci e perciò aperti su due lati con un’apposita taglierina elettrica».

Pare che i sacchi, secondo quanto riportato dall’epidemiologa americana Margaret Quinn, fossero addirittura 1500. Venivano usati per fasciare gli stracci dopo la prima cernita. Erano rotti di lato e poi pressati e legati attorno ai mucchi di stracci, dopo una pressatura meccanica. Nella zona di lavorazione viene identificata della polvere di asbesto.

Se i cernitori tradizionalmente sono uomini (perché serve forza di polso per lo strappo manuale delle fodere), a usare la taglierina sui sacchi sporchi di amianto sono invece donne, che riferiscono, intervistate dai periti dell’Usl, «fenomeni irritativi cutanei e delle prime vie respiratorie insorgenti in correlazione all’esposizione alle polveri provenienti da quei sacchi; i sintomi erano così importanti da richiedere la rotazione del personale». Un bel lavoro, che soffiava amianto in faccia a quelle donne costrette a usare le presse per chiudere e imballare mucchi di stracci dentro ai sacchi dei cementifici. Le presse a loro volta mettevano in movimento nell’ambiente le fibre. I sacchi imballati poi venivano inviati alla cernita seconda, esponendo alle fibre altri lavoratori. I campioni sequestrati dall’Usl, inviati nei laboratori, confermarono la presenza di amianto, nella forma perlopiù del crisotilo, e poi di crocidolite e amosite. Fibre del minerale killer furono trovate anche sugli abiti degli operai, che ovviamente se le portavano a casa.

I primi ad ammalarsi sono quelli che stanno più in basso, come sempre. I paria: i cernitori alla base dell’industria tessile pratese. Quanti morti registra il distretto pratese del tessile per mesoteliomi pleurici? La risposta ce la dà l’Ispo, l’Istituto per lo Studio e la Prevenzione Oncologica di Firenze. Nel periodo 1988-2012 i registri segnalano 172 casi di mesoteliomi.

Eppure rimane una domanda. Come arrivarono quei 1500 sacchi di amianto a Prato? L’inchiesta condotta da alcuni medici del lavoro dice che arrivarono da Reggio Emilia e presumibilmente dalle ditte di cemento-amianto della zona.

Solo che qui la storia diventa ancora più paradossale. Perché non erano le aziende a portare i sacchi sporchi di amianto a Prato. I sacchi che contengono materiali di vario genere non hanno un grande valore economico. Certo, i sacchi in fibra naturale andavano nei sacchifici e venivano reintegrati nel mercato. Ma questi sacchi sporchi di asbesto servono a poco e vengono accumulati e messi da parte in un magazzino emiliano, fino a quando non li vede qualcuno. Chi? Come in ogni storia che si rispetti, arriva ad un certo punto l’uomo in nero. Che è quello che sposta i sacchi sporchi di amianto da Reggio Emilia a Prato.

Un cattivo? No, l’uomo in nero è uno buono, un sant’uomo. Ci sono, al mondo, i buoni. Quelli che fanno le cose in buona fede. Magari c’è di mezzo anche un piccolo interesse economico, ma credo che quell’uomo in nero ignorasse la pericolosità dell’amianto perché si occupava nella vita di faccende per nulla materiali. E siccome di cose materiali non ne capisce nulla, fa involontariamente un disastro. Perché quei sacchi dovevano dormire in un magazzino come un drago malefico e invece il buono, inavvertitamente, con la sua ingenuità risveglia il drago.

Chi è quest’uomo in nero? Il nome non lo sappiamo. O almeno non me l’hanno detto. Conosciamo solo il suo mestiere e la prima che me ne parla è l’epidemiologa americana che sulla vicenda ha scritto tanti anni fa e che ho intervistato via mail. E quando mi arriva quella riga benedetta devo leggerla due volte perché penso di aver interpretato male l’inglese: «The story included a priest who somehow helped to get the bags from the cement factory to the cernite».

Insomma, l’uomo in nero, colui che in buona fede ha portato l’amianto da Reggio Emilia a Prato era un buon pastore. Un prete. Un prete di Reggio Emilia che nulla sapeva di amianto o di industria. Che ormai sarà morto anche lui. Che si è mosso in buona fede per riciclare quei sacchi pieni di amianto, perché lì non stavano a fare niente quei sacchi, facevano solo polvere. E la polvere arrivò a Prato per imballare la lana delle pecorelle, che un giorno sarebbe stata rigenerata. E i poveri cenciaioli furono sacrificati per il processo della resurrezione della lana e dell’accumulazione del profitto. Pulvis es et in pulverem reverteris.