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Quei redditi, immobiliari e finanziari che non vedono l’Irpef

Quei redditi, immobiliari  e finanziari che non vedono l’Irpeffoto di Luke MacGregor

Riforma fiscale La sinistra potrebbe avanzare la proposta, di far rientrare nella tassazione dei redditi quote di patrimonio, utilizzando la stessa metodologia dell’Isee

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 18 giugno 2020

Più che una patrimoniale, egli osserva, serve una riforma strutturale del sistema fiscale, mantenendo (e rafforzando) il carattere progressivo del prelievo. Sul tema l’articolo di Piero Bevilacqua (il manifesto, 13 giugno) offre diversi spunti di discussione. Perché il fatto è che oggi in Italia proprio la progressività non funziona, anzi si è andata sempre più snaturando. La riforma fiscale dovrebbe servire appunto a ripristinarla e renderla efficace.

E’ questo il problema da risolvere, partendo da un dato incontestabile: la ricchezza, immobiliare e finanziaria, gode di un regime fiscale vantaggioso. Complessivamente, una ricchezza che vale tre volte il Pil, è soggetta ad una tassazione separata e di favore. Non transita nell’Irpef. E i più ricchi possono giovarsi di quello che in letteratura viene definito «arbitraggio fiscale», ossia la possibilità di scegliere di volta in volta il modo più conveniente di farsi tassare, «giocando» tra aliquote basse e pratiche elusive ed evasive (alle quali specialmente i redditi derivanti da immobili, come è ben noto, si prestano).

La concentrazione della ricchezza è andata di pari passo, dunque, con la crescita dell’iniquità fiscale. Se guardiamo al gettito fiscale, mentre l’Irpef rappresenta, più o meno, il 15 per cento del Pil e l’Iva il 14 per cento, la tassazione dei patrimoni immobiliari in rapporto al Pil è solo un misero 0,3 per cento. Esiste, inoltre, una corrispondenza diretta tra aumento delle disuguaglianze sociali e inefficienza e ingiustizia fiscale. Partiamo dai fatti. La ricchezza netta posseduta dai lavoratori dipendenti, facendo pari a 100 la ricchezza media familiare, nell’ultimo ventennio, si è ridotta del 20 per cento. In questa classifica gli operai hanno la maglia nera. L’indice di ricchezza posseduta dalle loro famiglie si è praticamente dimezzata. Al contrario la ricchezza posseduta dai lavoratori autonomi, nonostante la crisi, ha continuato il trend di crescita. Ci riferiamo naturalmente ai dati pre-pandemia.

Com’è possibile che in Italia, uno dei paesi in cui le aliquote della tassazione sui redditi delle persone fisiche sono tanto più alte quanto più cresce il reddito, la distribuzione dei redditi è tra le più diseguali d’Europa? Una ragione è che il nostro sistema fiscale, se è progressivo nel prelievo sui redditi da lavoro, ha però rinunciato a tassare in modo progressivo gli altri cespiti. La situazione è che i redditi da lavoro dipendente sono meno della metà del prodotto nazionale ma contribuiscono per il 75 per cento al gettito Irpef. Sono i redditi medi, soprattutto quelli da lavoro dipendente, con patrimoni netti inconsistenti (perché, spesso, al valore dell’abitazione corrisponde una passività costituita dal mutuo bancario) a sostenere oggi il peso della tassazione progressiva dei redditi.

Se questo ragionamento è giusto, la conseguenza politica che ne discende dovrebbe essere chiara e netta. Fino a che i rendimenti dello stock di patrimonio, finanziario e reale, escludendo la prima abitazione, non entreranno a far parte di un sistema di tassazione progressiva, la tassazione dei redditi sarà sempre più la tassazione dei redditi del lavoro dipendente, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e aumenteranno le diseguaglianze. Sarebbe inadeguata e perdente una sinistra che, come a volte appare, difendesse una progressività nel sistema di tassazione, che invero non esiste, e che proponesse, magari in aggiunta, qualche correttivo, tipo la «patrimoniale», per rendere il prelievo più equo. In questo ha perfettamente ragione Piero Bevilacqua.

La patrimoniale sarebbe una risposta limitata e riduttiva a un problema reale, ma non migliorerebbe più di tanto l’equità complessiva del sistema fiscale. Non si tratta né di evocarla né di demonizzarla. Da parte di esponenti del centrosinistra si arriva a considerarla un tabù, una parola impronunciabile! Ma il problema esiste e va affrontato al più presto in sede sindacale e politica.

Una proposta adeguata e vincente, che la sinistra potrebbe avanzare, consiste nel far rientrare nella tassazione dei redditi quote di patrimonio, utilizzando allo scopo la stessa metodologia dell’Isee (l’indicatore della situazione economica equivalente), che si applica per verificare le condizioni economiche di chi richiede prestazioni sociali agevolate. Come è noto l’Isee è composto da una parte reddituale e da una parte patrimoniale, opportunamente «valorizzata» attraverso l’applicazione di franchigie e coefficienti.

Facendo rientrare quote di ricchezza nella tassazione progressiva dei redditi si potrebbe portare il nostro sistema fiscale verso un modello di comprehensive income tax (una tassa comprensiva di tutti i redditi: da lavoro, da capitale, da entrate straordinarie) che limiterebbe l’arbitraggio fiscale dei ceti più abbienti, sarebbe in grado di distribuire in modo certamente più equo il peso fiscale, garantirebbe un sensibile aumento del gettito da utilizzare per nuove politiche d’investimento e di welfare.

Pensiamo che un sistema di comprehensive income tax costituisca non solo una risposta alle fughe in avanti rappresentate dalle proposte di una nuova imposta patrimoniale, ma anche un’occasione per definire una proposta che tolga alla destra il monopolio dell’iniziativa politica per un nuovo fisco.

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