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Nicolini: «Quei morti urlano vendetta»

Nicolini: «Quei morti urlano vendetta»3 ottobre 2013, sul molo di Lampedusa vengono allineati i primi cadaveri dei migranti

3 ottobre Giusi Nicolini: «I politici? Devono calpestare i luoghi del dolore. Per loro non ci sono alibi»

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 25 settembre 2014

«L’omertà che ha sempre circondato l’immigrazione si è rotta quando il Papa è venuto a Lampedusa. Quel giorno, parlando di tutti i migranti morti nel Mediterraneo, ha detto: ’Questo è l’Olocausto del nostro tempo, questa è la più grande strage silenziosa che pesa sulla coscienza di tutti’. Di tutti, perché queste non sono le vittime di una guerra, ma persone morte in viaggi che sono la diretta conseguenza delle politiche europee sull’immigrazione e sul diritto d’asilo. E allora il 3 ottobre non dovrà essere un giorno in cui si sta in silenzio. Qua bisogna urlare. Il giorno della Memoria deve essere l’urlo della vendetta che chiedono questi morti».
Parla a fatica, con affanno Giusi Nicolini, sindaco dell’isola che per anni ha il proprio nome e la propria storia uniti a tanti drammi dell’immigrazione. Da giorni l’isola si sta preparando a commemorare la tragedia più grande che l’abbia mai investita, quei 366 migranti morti un anno fa, il 3 ottobre 2013, a meno di un miglio dalle sue coste. Morti che, spiega Nicolini, ancora oggi aspettano giustizia.

Sindaco Nicolini, cosa è cambiato in questo anno appena trascorso?

E’ finito quel santuario che era la legge Bossi-Fini, a dimostrazione che non sono più intoccabili le politiche di chiusura e repressive sull’immigrazione. Sicuramente è cambiata anche la consapevolezza dell’opinione pubblica, e non soltanto italiana. Ed è cambiato lo sguardo verso Lampedusa. Molti, forse tutti hanno capito cosa ha fatto Lampedusa in questi anni e hanno capito da una lato l’assurdità di avere una frontiera che fissa le sue colonne su un’isola così piccola, dall’altro il grandissimo sforzo di umanità e accoglienza che è stato fatto. Lo chiamo sforzo perché per quest’isola non è stato né indolore, né facile. Credo che ormai Lampedusa non sia più quella percepita quando al Viminale c’era Maroni, che ci lasciò 10 mila tunisini venuti dalla primavera araba. Allora eravamo la pattumiera d’Europa, perché dovevano tenerli qui per rimpatriarli da qui.

E per l’isola è cambiato qualcosa?

Tantissimo, noi non saremmo statai in grado di gestire i numeri che ci sono statai quest’anno: più di 100mila persone, 5.000 che arrivano in un week end. Direi che Mare nostrum è servita più a Lampedusa che ai migranti, perché per salvarli noi li abbiamo salvati sempre. Tranne dal 2009 al 2011, gli anni dei respingimenti in mare per i quali l’Italia è stata anche condannata dall’Europa.

Cosa pensa del progetto del ministro Alfano di mettere fine alla missione Mare nostrum?

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L’operazione di soccorso per tentare di salvare vite umane nel Mediterraneo non può essere interrotta. Il principio è salvare i migranti e diminuire il numero dei morti, diminuire perché evitarli non si può. L’auspicio semmai è che venga effettuata dall’Europa nel suo insieme e non solo dall’Italia. Ma insieme alla presa in carico da parte dell’Europa di tutta la partita: dal combattere la tratta di essere umani fino ad avere una riforma radicale e drastica del diritto di asilo e del regolamento di Dublino. Altrimenti saremo sempre punto e a capo. Sostituire Mare nostrum con Frontex senza che quest’ultima abbia cambiato i suoi obiettivi e le sue finalità non ha senso. Perché lo scopo di Frontex non è quello di salvare vite umane, ma difendere la frontiera.

Lei più volte ha sollecitato l’apertura di corridoi umanitari. Tornerà a chiederlo anche ai politici che verranno a Lampedusa il 3 ottobre?

Ma certo. E’ l’unica cosa da fare e credo che sia anche la più conveniente per l’Europa. Anche perché i migranti continueranno ad arrivare anche se nessun li ha autorizzati, perché le ragioni della loro fuga sono enormi, non sono iniziate ieri e non finiranno domani.

Ci sono molte polemiche per la presenza di politici a Lampedusa. Si teme la solita passerella inutile.

Questa storia della passerella, che in alcuni casi è vera e vedremo se sarà vera anche questa volta, è un’arma a doppio taglio. Io credo che i rappresentanti delle istituzioni debbano calpestare i luoghi del dolore e che non sia il silenzio quello che bisogna chiedere. Il silenzio si fa in tutte le commemorazioni: negli stadi, in chiesa, prima di un comizio. Qua invece bisogna urlare. Quando era premier, Enrico Letta venne a Lampedusa perché io, mentre mi portavano i corpi sulla banchina, ho preso il telefono e ho dettato un telegramma in cui dicevo: ’Caro presidente, sono sul molo Favaloro e mi sono stati portati già 120 cadaveri. Le chiedo di venire qua a contare i morti insieme a me, a sentire l’odore della morte’. Quindi non facciamo confusione e non diamo, con l’alibi della passerella, un ulteriore alibi a chi vuole restarsene lontano, ignaro e indifferente a queste tragedie. Io pretendo che i politici vengano a capire di che cosa stiamo parlando, a vedere e onorare i morti, a vedere come la mia comunità vive, che opera grande ha fatto e che problemi grandi, irrisolti da decenni abbiamo per essere stati condannati a isola di frontiera. Se per far capire tutto questo devo incontrare di politici, io li incontro.

Anche perché c’è ancora da risolvere il problema dell’identificazione delle vittime.

C’è un grosso ritardo su questo, anche se so che ci sono delle novità. Mettere un nome su una bara e restituirla alla famiglia non è solo una questione di doverosa umanità, ma un altro passo verso il riconoscimento dei migranti morti come essere umani. Perché è anche così che è passata la disumanizzazione della tragedie dell’immigrazione: con il fatto che questi morti non hanno un nome, che nessuno li va a piangere e che non si sa dove sono sepolti.

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