Cultura

Quei «magnifici quattro» del rigoglio linguistico

Quei «magnifici quattro» del rigoglio linguistico

SCAFFALE «Scritture verticali. Pizzuto, D’Arrigo, Consolo, Bufalino» di Gualberto Alvino per Carocci

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 5 giugno 2024

La letteratura italiana ha sempre goduto di un rapporto felice con la varietà delle articolazioni regionali della lingua, che hanno arricchito e diversificato le possibilità di significazione, oltre che gli scenari immaginari e reali. Di qua e di là di presunte od oggettive predominanze, ogni esperienza letteraria italiana ha dovuto mediare tra lingua nazionale ed usi non sovrapponibili a sé, anzi producendo una contaminazione che ha travalicato le mere esigenze comunicative o le norme scolastiche. Pressoché ogni regionalità ha dato un suo contributo all’estetica della lingua comune, e non certo nel senso di fomentare processi di estetizzazione, bensì di partecipare allo sforzo di radicare il sentire nel dire, scambiandosi passioni e modi di giudicare.

PUÒ LEGGERSI in questa chiave, per altro suggerita dalla prefazione a firma dello storico della lingua italiana Pietro Trifone, un libro dedicato a quattro grandi autori siciliani: l’ha scritto Gualberto Alvino, Scritture verticali. Pizzuto, D’Arrigo, Consolo, Bufalino (Carocci, pp. 192, euro 21), azzeccando anche un titolo che rimanda sia a faticose ascese (o a vertiginosi sprofondamenti) sia a quel tipo calligrafico che sta alla base dei caratteri moderni della scrittura e della stampa. Coltivarono, i magnifici quattro, un’esuberanza di linguaggio rarissima, e irta d’invenzioni, con spettacolare disinibizione a usare metamorfosi lessicali e sintattiche entro un vocabolario allargato e mobile come pochi hanno osato.

LE INDAGINI di lingua e di stile qui presentate sono proprio dedicate a scoprire la logica e gli effetti di questi stranianti e un po’ funambolici esercizi di scrittura, che pur diversissimi tra loro e mossi da differenti ragioni, purtuttavia condividono e testimoniano una sorta di resistenza alle tentazioni e alle dittature dell’uniformazione, della banalità e della mediocrità della lingua; e per ciascuno di quelli, Alvino regala un ricco lemmario, utile sia per chi non fosse del tutto privo di attrezzature sofisticate sia per chi si approcciasse solo occasionalmente a qualcuno dei romanzi o delle «pagelle» di Antonio Pizzuto, tipo Si riparano bambole o Giunte e virgole; o al misterioso Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo (cui si associa un capitolo sul carteggio con l’amico Cesare Zipelli); o a qualcuno degli esuberanti racconti di Vincenzo Consolo, da Il sorriso dell’ignoto marinaio a Lo spasimo di Palermo; oppure, infine, di Gesualdo Bufalino, a romanzi quali Diceria dell’untore o Argo il cieco e, perché no, a uno dei suoi iper-ironici saggi.

LE DISTANZE IDEOLOGICHE ed estetiche che separano questi autori danno conforto all’utilità di un’analisi così meticolosa, fatta da un occhio attentissimo (ed anche assai esperto delle carte di quegli scrittori, di cui ha curato inediti e, possiamo dirlo, scoperto segreti), che privilegia le innovazioni e le invenzioni di parole nuove, anzi le onomaturgie, come più correttamente si indicano nel libro i frequenti guizzi creativi di quelli. Pare di assistere, in queste analisi, a un inaspettato braccio di ferro tra volontà di deformazione (dalla riduzione a idioletto o a cifra, al prelievo diretto o all’associazione piratesca, fino al calco fonico e allo scherzo, al dar di voce e di rima, al citar parodistico) e l’osservanza della grammatica profonda della lingua (l’insieme di regole di formazione delle parole che ci permette di riconoscerle nelle funzionalità tipiche). Quasi operazioni di stravolgimento entro un quadro di norme.

DIETRO questo far lingua, sempre apparso come un ostentato eccesso e alla fine un vano gioco insensato, sembra annidarsi invece una poetica della lettura oggi più che mai necessaria: quella del distacco infinito tra il sé e il mondo, dove il linguaggio, in quanto spazio comune, diventa il luogo in cui nascondere, diremmo anzi insaccocciare la differenza, la distinzione, il distinguo, a patto di abbracciare un’ironia assoluta, forse ossessiva, che può essere tragica e comica, sorniona e aggressiva. Opzioni non univoche, ci mostra e racconta Alvino, che dipendono dalle voracità psicologiche degli autori e dagli umori delle situazioni.

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