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Quei liberali che plaudono al ritorno della tassazione ottocentesca

Quei liberali che plaudono al ritorno della tassazione ottocentesca

Sul «Corriere» Panebianco invita a tornare ai «fondamentali» per passare dalla repubblica fondata sul lavoro a quella basata sulla libertà (della tassazione)

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 3 agosto 2017

Chiunque abbia studiato le trasformazioni dei sistemi tributari nell’età contemporanea è certamente avvertito del fatto che, per molti aspetti e non certo secondari, tali sistemi possono essere considerati l’«anatomia» dello stato dei rapporti tra le classi sociali, la rappresentanza politica, le sfere culturali di riferimento. Teorie della finanza pubblica, politica tributaria, legislazione fiscale devono esser considerati come i «fondamentali» della politica reale. Elementi di base su cui misurare la consistenza delle variabili, sia di breve che di medio periodo, al netto dei caratteri mistificanti del discorso politico politicante.

Per questo ho apprezzato l’editoriale di Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 20 luglio), che, con onestà e coerenza intellettuale, a partire dalla proposta di «tassa piatta» delinea una progettualità politica basata proprio sui «fondamentali». Panebianco considera la proposta di «tassa piatta» incompatibile con i principi, anch’essi «fondamentali», della costituzione italiana. Ed ha ragione. Così come considera incompatibile con quei principi il jobs act e la stessa riforma costituzionale bocciata nel referendum del 4 dicembre. Ed ha ancora ragione. E dunque arriva al punto centrale dell’argomentazione: la nostra repubblica non deve essere fondata sul «lavoro» bensì sulla «libertà», che significa, nei processi reali, libertà delle logiche di accumulazione del capitale. E soprattutto significa «prendere congedo dalle ideologie socialisteggianti che hanno segnato i secoli Diciannovesimo e Ventesimo».

Dobbiamo essere grati a Panebianco per tale chiarezza che deve costringere la nostra parte a ragionare con altrettanta chiarezza analitica sui «fondamentali».

Dal punto di vista dei lineamenti teorici il sistema fiscale proposto si ispira ad una concezione della modernità che risale ai Due trattati sul governo di John Locke non casualmente pubblicati nel 1690, cioè appena due anni dopo la «gloriosa rivoluzione» inglese. Sebbene nei confronti di Locke, come di Smith, la pubblicistica liberale corrente dia immagini banalizzanti e riduttive, si tratta comunque della scelta di un’ascendenza culturale di altissimo livello. Come si vede viene tuttora utilizzata come giustificazione teorica della nuova (?) prospettiva di «tassa piatta». Sarebbe vecchia, invece, l’ascendenza dell’altra concezione della modernità, quella democratica, quella che ha radici nella teoria critica marxiana, nonostante, per lo meno in termini di oggettività cronologica, sia più giovane di quasi due secoli.

Ebbene tutta la storia delle riforme fiscali nell’Ottocento e nel Novecento è la risultante del conflitto tra queste due diverse concezioni della modernità, tra i sistemi di forza (culturale, sociale, economica) che hanno trovato forme di aggregazione intorno a quegli insiemi concettuali. «Tassa piatta» e «progressività impositiva» sono gli assi intorno a cui ha ruotato la sostanza di un conflitto centrale nella determinazione degli equilibri sociali e politici: un conflitto apertamente di classe. E dall’Ottocento ad oggi la base di ragionamento è sempre rimasta la stessa così felicemente sintetizzata dalle parole di Antonio De Viti De Marco, uno dei più importanti economisti liberali d’inizio secolo XX, che faceva notare «come fosse l’imposta proporzionale l’istituto tributario che «rispettava al massimo la produzione della ricchezza e l’accumulazione di capitale». Al contrario l’imposta progressiva era «la bandiera della lotta tra ricchi e poveri» e tendeva «a trasformarsi in una lotta ad oltranza contro le classi abbienti» con «la minaccia di graduale confisca delle grandi e crescenti fortune». Esattamente la stessa logica argomentativa usata, quasi cent’anni dopo, da Panebianco.

Il contesto della ripresa di modelli teorici tardo secenteschi/e/o tardo ottocenteschi è quello dell’avvenuta inversione di tendenza rispetto alla stagione di restringimento della forbice delle disuguaglianze che è stata la caratteristica fondamentale dei «trenta gloriosi» (1945-1975). Non a caso la polemica sulla progressività impositiva comincia negli anni Ottanta del Novecento ed anche la riproposizione della «tassa piatta», magari raggiungibile per detrazione. Oggi non c’è più nemmeno bisogno di questo meccanismo come foglia di fico.

L’Italia ha uno dei peggiori indici per quel che concerne l’effetto redistributivo dell’intervento dello Stato tra i paesi Ocse. Quanto pesa su tale situazione la struttura della tassazione e dei trasferimenti fiscali? Agli inizi degli anni Ottanta gli scaglioni sui cui viene calcolata l’aliquota Irpef si sono dimezzati. In particolare sono scomparsi gli scaglioni riguardanti i redditi più alti. Inoltre vi è stata una netta diminuzione dell’aliquota su tali redditi e l’abbassamento della somma complessiva su cui è prelevata l’aliquota massima. Un colpo non indifferente alla sostanza dell’articolo 53 della Costituzione.

In un bell’intervento (il manifesto, 22 luglio) Laura Pennacchi ha delineato i modi in cui deve declinarsi nel contesto attuale la «questione fiscale», sia come programma politico, sia come riferimento culturale imprescindibile dell’identità della sinistra in costruzione. È il caso, dunque, di ragionare in termini di «fondamentali», invece di discettare sui posizionamenti di Pisapia e sulle gradazioni cromatiche (rossa? poco rossa? per niente rossa?) della «cosa» nuova secondo Bersani.-

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