Nel mercato delle idee scientifiche, le pubblicazioni svolgono il ruolo della moneta. Come i capitalisti, gli scienziati ne accumulano il più possibile: chi ha il bottino maggiore ottiene cattedre, incarichi di prestigio, finanziamenti per nuove ricerche. Nella metafora finanziaria, le riviste specializzate svolgono il ruolo delle banche centrali: sono loro che stampano la moneta, pardon, le pubblicazioni scientifiche. E così come le monete non hanno tutte lo stesso valore, anche gli articoli su certe riviste – per esempio Nature o Science – sono più solidi di altri.
Quando però la moneta perde il legame con l’economia reale e diventa un bene virtuale nascono bolle speculative e esplodono crack di borsistici e crisi finanziarie mondiali. È quello che sta succedendo anche con le pubblicazioni? Il dubbio è lecito: nel solo 2022 sono stati pubblicati oltre 5 milioni di articoli scientifici, cioè un milione in più rispetto a quattro anni prima. Rappresentano davvero una misura del progresso scientifico in corso o, come i derivati prima del fallimento della Lehman Brothers, sono il segno di un sistema fuori controllo?

È uno degli interrogativi contenuti in un recente saggio intitolato «Sul pubblicare in medicina. Impact factor, open access, peer review, predatory journal e altre creature misteriose» (il Pensiero Scientifico editore) che racconta l’editoria scientifica come una Wall Street popolata dai suoi lupi. Lo ha scritto Luca De Fiore da un punto di vista privilegiato: l’autore è anche il direttore del Pensiero Scientifico, una delle case editrici italiane più importanti nel campo della letteratura scientifica in campo biomedico, con una ventina di riviste scientifiche all’attivo e decine di saggi e monografie sfornati ogni anno.
Alle riviste spetta il compito di garantire la circolazione delle idee – per conoscerle, migliorarle, contraddirle. Solo in tempi più recenti le riviste hanno smesso di essere uno strumento della comunità scientifica e sono diventati attori influenti anche dal punto di vista economico.

La mutazione che racconta De Fiore accelera grazie a Internet, che moltiplica la possibilità di diventare editore e anche i modelli di business. Sul web è nato anche il movimento dell’«open access», le riviste che non chiedono abbonamenti a pagamento ai lettori, ma contributi alle spese degli autori. L’«accesso aperto» nasce per nobili istanze – abbattere le barriere economiche per favorire la diffusione della conoscenza – ma recentemente è diventato il metodo più usato per stampare moneta farlocca: lo scienziato paga per pubblicare scoperte mediocri e talvolta inventate per «fare curriculum», l’editore incassa senza controllare, e tutti sono contenti. Tranne i cittadini, che con le loro tasse sostengono la ricerca pubblica nella convinzione che serva a sviluppare nuove conoscenze e, prima o poi, migliorarci la vita.

Il sistema è ormai drogato: aumentano le ricerche da pubblicare ma non ci sono più abbastanza esperti per distinguere le scoperte vere dalle bufale. Il risultato è che, oltre agli articoli pubblicati, negli anni crescono esponenzialmente quelli ritirati perché chiaramente falsi. Il problema è trasversale, ma nel campo medico raggiunge le dimensioni di un’emergenza globale.
Da editore, De Fiore conosce i trucchi del mestiere e li racconta con onestà e dovizia di dati. Il libro si conclude con alcune proposte concrete per evitare il crack: pubblicare meno ricerche (ma più approfondite), aumentare la trasparenza delle sperimentazioni cliniche, coinvolgere i medici sul campo e i pazienti nella programmazione delle ricerche, insegnare a scuola, i principi dell’etica scientifica accanto ai contenuti disciplinari. Prima che un’ondata di scienza tarocca sommerga tutti.