Quei centimetri quadrati di cartapesta e sughero dove la Buona Novella diviene villaggio globale
In Il ritorno di Giuseppe di Fabrizio De André (La Buona Novella, 1970) soffia dolcemente l’«odore di Gerusalemme», così adatto a spiegare quel senso arcano di sacra mangiatoia che si respira dentro il presepe pur nella variegatura del folklore, dai pupi di Acireale al legno tirolese, dai costumi andini allo scenario di savana. È noto che nella memoranda notte di Natale del 1223 san Francesco rivestì per la prima volta gli abitanti di Greccio con i costumi dei Re Magi, dei pastori e dei santi coniugi, Maria e Giuseppe (Giotto ne immortalò la scena nella Basilica di Assisi).
Ma solo a partire dal Settecento si assesta a Napoli un tentativo di «domesticazione» del presepe che coincide con la «privatizzazione familiare» e l’«autonomia ideativa e costruttiva» alla base della moderna concezione formale. Marino Niola e Elisabetta Moro, docenti di antropologia al Suor Orsola Benincasa di Napoli, raccontano questa lunga ed esaltante avventura in Il presepe Una storia sorprendente (il Mulino, pp. 244, € 16,00): da Betlemme a San Gregorio Armeno, negli esigui centimetri quadrati fatti di sughero e cartapesta – dove la fissità diviene movimento – è racchiusa la storia del mondo, il «villaggio globale», «una sterminata tassonomia», una variopinta calca multietnica, policentrica, estremamente inclusiva: l’intera traccia umana con la sua pulcra diversità. «Mercanti, suonatori, venditori ambulanti, osti, lavandaie, re neri, visir ottomani, schiavi nubiani, donne di malaffare, zingare, giocolieri, biscazzieri, pizzaioli» e «un andirivieni di personaggi contemporanei spinti e risucchiati dall’onda della cronaca»: calciatori, politici, celebrità varie ed eventuali. Senza dimenticare, tra i figuranti più eterocliti, il cagador (anche detto el cagón del belen), le cui funzioni fisiologico-attanti non necessitano di esplicitazione.
Al di là di éschaton e scathón, come scrive Niola, proprio con il regno borbonico inizia «quel processo di allargamento scenografico, di contaminazione sincretica che trasforma profondamente natura e cultura, struttura e dimensione del presepe, mutandone in maniera decisiva l’architettura ideologica e sociale». Teatro in cui il trascendentale iconico e il localismo più sfrenato sono amabilmente coniugati, paradigma di ogni bricolage e presago formicolare del romanzo postmodernista in epoca rococò, il presepe è una tipologia particolarissima di trompe-l’oeil con la sua pynchoniana entropia e la virtuale disseminazione del segno. Le greppie napoletane – definite da Manganelli «universale incantagione, una fascinazione, direi un sabba pudico» – sono oggetto di reinvenzioni letterarie (si veda Natale in casa Cupiello); producono tenebrose «ierofanie borghesi»; attuano sincronie astrali con Mitra Sol Invictus; mettono insieme il romérage e l’illusione spaziale, la «scena comunicante» e splendidi anacronismi («Re Magi che portano al collo le insegne del Reale Ordine di san Gennaro, la massima onorificenza del Regno delle Due Sicilie, istituita da Carlo di Borbone 1.738 anni dopo la nascita di Cristo. Come se oggi i tre re avessero in mano il telefonino»).
Moro evidenza altresì, con Benjamin, la «verità della vita» insita nel magma della «folla brulicante»: grazie alla commedia, al mito e alla storia «la rappresentazione della Natività (…) fermerebbe l’attimo in cui la favola muta natura, invertendosi nel suo opposto, per farsi mistero». Poca favilla gran fiamma seconda: un’enigmatica potenza è incistata nell’evento che il vangelo napoletano narra visivamente con gioia e semplicità barocca. Il 1° dicembre 2019 papa Francesco ha dedicato al presepe popolare la Lettera apostolica Admirabile signum, sottolineando come il pullulare di «statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici» intenda, in realtà, esprimere quanto «in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù ci sia spazio per tutto ciò che è umano».
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