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Quei calciatori ribelli

Quei calciatori ribelliGigi Meroni

In campo Insofferenti alle regole come i loro coetanei fuori dal campo, gli atleti degli anni '60

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 5 dicembre 2020

I calciatori di oggi sono quasi tutti «pettinati». Ogni loro parola sui social è ben filtrata e retribuita, le idee politiche, se mai lontanamente dovessero far capolino, vengono represse da un sistema calcistico che non vuole mescolare affari e politica, anche se da tempo il calcio globalizzato si regge su entrambi i pilastri. Eppure nella lunga storia calcistica del secondo dopoguerra, quando con il boom economico degli anni ‘60 del secolo scorso hanno cominciato a circolare più soldi e i calciatori chiamati a intrattenere le folle domenicali sono diventati più privilegiati economicamente rispetto alle generazioni precedenti, non sono mancati i ribelli. A volte mettevano in atto gesti innocui, come giocare con i calzettoni abbassati fino alle caviglie, tipico di Mariolino Corso, da poco scomparso, nell’Inter di Helenio Herrera, allenatore che aveva elaborato un codice di comportamento dentro e fuori il rettangolo verde e pretendeva che i suoi calciatori vi si adeguassero.

I capelloni
Gianfranco Zigoni, giocatore della Juventus, Roma, Genova e Verona, al Bentegodi dopo un gol capolavoro uscì di punto in bianco dal campo al 63’ del secondo tempo. Disse che non aveva senso continuare a giocare. Alla Juve, però, dovette tagliarsi i capelli lunghi, come ammise anni dopo: «Ero troppo giovane non avevo la forza di ribellarmi agli Agnelli».

Gigi Meroni, capellone, estroso attaccante del Torino morto investito da un’auto mentre attraversava una via della città, era mal tollerato dalla Chiesa-calcio. Nel 1965 in occasione di Italia-Polonia, fu chiamato da parte dal ct azzurro Edmondo Fabbri, che gli chiese di tagliarsi i capelli lunghi e la barba, se voleva giocare titolare. Meroni rifiutò e non fu più convocato in Nazionale. Poi ci furono quelli più politicizzati, come Enzo Vendrame, poeta e scrittore che si collocava a metà tra Gigi Meroni e Paolo Sollier, quest’ultimo calciatore del Perugia in serie A e militante dell’organizzazione della sinistra radicale Avanguardia Operaia. Vendrame era di Casarsa e soleva dare appuntamento ai giornalisti davanti alla tomba di Pasolini. L’autore degli Scritti Corsari nel febbraio del 1945 rifugiatosi con il cugino Nico Naldini e Valerio Curcio nella campata della chiesa del paese per sfuggire ai rastrellamenti dei nazifascisti, discuteva della necessità di dar vita a una squadra di calcio per far ripartire la vita sociale a Casarsa.

I politicizzati
Il ribelle Sollier destinava il suo premio partita alla sottoscizione di un certo numero di abbonamenti al Quotidiano dei lavoratori. Scrisse un libro Calci, sputi e pugni chiusi, in cui denunciò il marcio del calcio. Naturalmente, la stampa sportiva orchestrò una violenta campagna denigratoria accusandolo di «sputare nel piatto in cui mangia» e finì nelle serie minori. Con Sollier c’era Massimo Raffaeli, compagno di squadra nel Perugia in A, iscritto al Pci. La serie dei ribelli è proseguita con Lucarelli (Torino e Livorno) e Zampagna (Atalanta). Alcuni erano più inclini al modello Diego Maradona altri a Jeorge Best, il fuoriclasse del Liverpool morto di cirrosi epatica.

Calciatori partigiani
Un po’ l’uno e un po’ l’altro era Antonio Bacchetti calciatore dell’Udinese, Inter, Napoli. Leggeva l’Unità, era comunista e aveva fatto la Resistenza. Nel 1951 quando giocava nel Napoli, il fantasioso pubblico partenopeo lo soprannominò ‘O Cammello, per il suo strano modo di correre. Antonio Bacchetti passò dal centrocampo del San Paolo alle aule del tribunale di Udine, dove fu processato per aver preso parte alla lotta partigiana. Questa l’accusa: il Cln di Pradamano (Udine) aveva deciso la condanna a morte di un aguzzino dell’ufficio provinciale agrario, che taglieggiava i contadini appropriandosi indebitamente di un certo numero di sacchi di grano che rivendeva. Bacchetti, che aveva il compito di procurare sostentamento alimentare ai partigiani in montagna, fu incaricato insieme ad altri due partigiani di «prelevare» l’aguzzino fascista e portarlo davanti al comando del Cln in montagna per un processo prima dell’esecuzione. Il sequestro avvenne di notte con armi in pugno e quando a metà del percorso i tre furono raggiunti da una staffetta partigiana, che li avvisò di un rastrellamento da parte dei nazifascisti, tale da spingere i capi partigiani che avevano imbastito il processo a dileguarsi, Bacchetti e compagni decisero di eliminare l’impiegato dell’ufficio agrario.

Dopo il 1948 con la sconfitta elettorale della sinistra, iniziò in Italia un processo di restaurazione intentato dai tribunali della Repubblica democratica e antifascista per delegittimare la Resistenza. In questo processo si inserisce la vicenda dei calciatori partigiani Bacchetti e Tieghi, quest’ultimo giocò nel Torino, Livorno, Novara, Reggiana e Vercelli dove fu segretario provinciale dell’Anpi.

In vista del processo di Udine, intentato dai famigliari dell’aguzzino fascista, Bacchetti fu sospeso per otto mesi dall’attività calcistica nel Napoli. Fu amnistiato in virtù della legge Togliatti per i reati politici, che metteva sullo stesso piano fascisti e partigiani. Dopo la sentenza disse: «Abbiamo combattuto col cuore, in montagna, ed ora eccoci qui, come fossimo dei malviventi».

Zoff e Bearzot
A porre rimedio a quella condanna fu Enrico Berlinguer, che lo propose nel direttivo della Federazione mondiale della gioventù democratica, da lui presieduta.

Antonio Bacchetti era conosciuto per i suoi gesti di bontà, a Milano durante la stagione interista un giorno vide un barbone infreddolito all’angolo di una strada, si tolse il cappotto e i guanti e glieli regalò, fece la stessa cosa quando giocava nel Torino. Sapeva che cosa significava patire il freddo, avendo fatto il partigiano tra le montagne friulane. Un libro di Sergio Giuntini ‘O Cammello ( Mimesis euro 14), racconta di calciatori ribelli e di Bacchetti, finito in carcere per aver ammazzato un procuratore di calcio a causa di un mancato pagamento. Prima di morire, nel 1979, gli fecero visita i friulani Bearzot e Zoff.

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