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Quegli «zingari» imprigionati nel campo fascista di Agnone

Quegli «zingari» imprigionati nel campo fascista di Agnone

Un'iniziativa dell'Unar ricorda le deportazioni di rom e sinti Davanti a tutti ci sono due bambini che tengono una bandiera: è verde come i prati, celeste come il cielo e con una ruota stilizzata sopra, a simboleggiare un popolo […]

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 17 maggio 2018
Mario Di VitoAGNONE (ISERNIA)

Davanti a tutti ci sono due bambini che tengono una bandiera: è verde come i prati, celeste come il cielo e con una ruota stilizzata sopra, a simboleggiare un popolo in fuga da secoli, sempre scacciato, evitato, nascosto, vilipeso, sparso per il mondo eppure incredibilmente unito.
Ieri ad Agnone, in provincia di Isernia, si è ricordata la rivolta dello Zigeunerlager di Auschwitz del 16 maggio 1944, quando quasi quattromila tra rom, sinti e caminanti decisero di non cedere ai soldati tedeschi arrivati lì per sterminarli: la resistenza sarebbe durata fino ad agosto, quando le SS tornarono in forze e massacrarono tutti.
Una giornata storica ma molto poco raccontata. Ci ha pensato l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) diretto dall’ex senatore del Pd Luigi Manconi a organizzare una giornata della memoria in uno dei paesi simbolo della persecuzione dei rom e dei sinti in Italia durante il fascismo: ad Agnone, infatti, tra il 1940 e il 1943, 148 persone vennero internate nel convento di San Bernardino, prigionieri per puri motivi di etnia, «senza aver mai fatto niente di male», come ricorda il professore Francesco Paolo Tanzj, che ha riportato a galla questa storia poco più di quindici anni fa, grazie a una lunga ricerca svolta con i suoi studenti del liceo scientifico locale.
Il corteo della memoria è partito dalla stazione ormai dismessa di Agnone e ha seguito il percorso che facevano i deportati, una discesa lunga quasi un chilometro verso l’ex convento divenuto prigione per i deportati d’Albania e per tutti «gli zingari» in generale. Adesso San Bernardino è una casa di riposo con lavori di ristrutturazione in corso. Nel giardino davanti all’entrata c’è una targa, apposta soltanto nel 2013, che ricorda le 148 vittime agnonesi del «Porrajmos», il ‘grande divoramento’ dei rom e dei sinti, che conta un totale di 500mila morti. Nel percorso, il centinaio di persone in corteo intona le note dolenti e quasi malinconiche di «Gelem, Gelem», l’inno rom: «Ho percorso lunghe strade, ho incontrato rom felici. Una volta avevo una grande famiglia, la legione nera li ha uccisi».

Si parla di «campo di concentramento» e il sindaco (di centrodestra) Lorenzo Marcovecchio quasi storce il naso: «È meglio parlare di luogo di prigionia», ha detto durante il suo discorso, nel tentativo di sostenere che la detenzione ad Agnone fosse meno peggio che altrove. La questione viene lasciata cadere, ed è lo stesso Manconi alla fine a ricordare che «il silenzio delle istituzioni, dei partiti politici e delle amministrazioni locali sul Porrajmos, in questi decenni, è uno degli elementi che hanno concorso a inasprire lo stereotipo che vorrebbe le comunità rom e sinti come irriducibili alle norme del vivere comune. Il dovere e l’urgenza di ricordare cambieranno irresistibilmente il nostro presente». Prima di lui sono intervenuti anche l’attrice e attivista Dijana Pavlovic e il musicista Santino Spinelli, che ha letto la sua poesia intitolata «Auschwitz», che a Berlino orna il monumento dedicato allo sterminio rom e sinti. L’ultimo canto è stato «Bella Ciao», annunciato come «inno di libertà universale» e intonato da tutti i presenti. Il sindaco Marcovecchio, nel frattempo, è sparito e non si è fatto vedere nemmeno nel secondo momento della celebrazione, l’incontro con gli studenti andato in scena in municipio. Qui gli applausi sono stati quasi tutti per il maestro Romolo Ferrara, 96 anni, che quando vide arrivare i deportati non girò lo sguardo dall’altra parte, ultimo testimone di una tragedia volutamente messa in secondo piano, tanto che, tra i perseguitati dal nazifascismo, gli unici a non aver mai visto nemmeno un euro di risarcimento sono proprio loro: gli zingari.

«Li vidi scendere alla stazione – questo il racconto di Ferrara -, erano persone civili, perbene. Erano lì come prigionieri e ci rimasi male. Mi sono sembrati sereni come chi non ha commesso nulla di male». È un punto fondamentale di una narrazione discriminatrice ancora adesso molto in voga, tra un malumore neanche troppo nascosto verso queste persone e leader politici che invocano le ruspe per sgomberare i campi con le roulotte, considerati zone franche fortemente volute da chi ci abita, quando regioni come l’Abruzzo e il Molise, dimostrano quanto sia vero il contrario: a Pescara e a Campobasso, rom e sinti abitano per lo più in appartamenti o in villini come tutti gli altri e sono integrati alla perfezione con il tessuto cittadino. «C’è chi vive nel disagio – conclude Spinelli –, ma non è una scelta. I rom e i sinti non sono persone senza casa e senza soldi, sono costretti ad esserlo».

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