Essere contro la guerra coerentemente, senza se e senza ma, è difficile, estremamente difficile. Ma questa è stata la scelta di Gino Strada, una scelta che l’ha reso una icona sul fronte del no alla guerra. Gino conosceva bene le conseguenze dei conflitti, bastava frequentare gli ospedali di Emergency per averne contezza.
Con Gino ci conoscevamo dal ’68, eravamo entrambi militanti del Movimento studentesco, la sede era in piazza Santo Stefano a Milano di fianco alla Statale, io mi occupavo delle pubblicazioni – Fronte popolare e supplementi – e il collettivo di medicina curava Medicina democratica. Erano anni di grande fermento politico e culturale.

E l’idea, o l’utopia, che si potesse cambiare il mondo era una suggestione che alimentava il nostro impegno politico. Chi ha vissuto quei momenti ha sempre mantenuto una sorta di affinità elettiva che ti faceva ritrovare sulla stessa sponda anche dopo anni, perfino decenni. Così è stato con Gino. Lui sempre rigoroso, intransigente, a volte quasi scontroso, erano questi i lati del suo carattere che lo facevano apprezzare o disprezzare.

ERO NEL CORNO D’AFRICA cercando di entrare nel Somaliland, che aveva dichiarato l’indipendenza dalla Somalia, quando, a Gibuti, ho ritrovato Gino insieme a un gruppo di infermieri. Allora dirigeva l’ospedale e con un piccolo aereo si spostava per intervenire anche nel Somaliland. Nell’ospedale venivano curate e deinfibulate donne che avevano subito mutilazioni genitali devastanti, una piaga che ancora infesta molti paesi dell’area. Emergency non era ancora nata, sarebbe stata fondata nel 1994.

Una ong creata per curare le vittime delle guerre e sanare le loro ferite, con l’impegno ad abolire la guerra dal nostro pianeta. Utopia e/o miraggio che però ha fatto crescere ospedali come centri di eccellenza sanitaria in diversi paesi interessati da conflitti.
A metà degli anni ’90 mi trovavo nel Kurdistan iracheno per seguire gli scontri scoppiati tra Partito democratico del Kurdistan di Barzani e l’Unione patriottica del Kurdistan di Talabani. L’entrata attraverso il confine turco era stata un po’ rocambolesca, ero stata poi scaricata da un furgoncino a Shaqlawa, al quartier generale del Fronte democratico di Barzani, in pieno coprifuoco.

Avevo poi deciso di spingermi fino a Sulaymania, poco distante dal confine iraniano, sotto il controllo di Talabani, per visitare il Centro di riabilitazione e reintegrazione sociale costruito da Emergency per curare le vittime delle mine e garantire loro un futuro. L’appuntamento con Gino Strada – fissato con l’aiuto di Teresa Strada – mi avrebbe permesso di avere anche il polso della situazione.
Quando arrivai al centro però stavano evacuando Gino perché aveva avuto un infarto, era forse il primo campanello d’allarme di quei disturbi che mal si conciliavano con la vita stressante in luoghi estremamente difficili in cui si trovava ad operare.

E poi l’Afghanistan, dove forse si è svolto, e continua a svolgersi, il lavoro più impegnativo di Emergency, con un ospedale molto efficiente in tempo di guerra. All’arrivo, nel dicembre del 2001, non ero riuscita a trovare un posto per dormire, si faceva buio, la situazione era piuttosto inquietante.

A CHI RIVOLGERSI? Gino Strada era a Kabul, riuscì a darmi ospitalità per una notte, il tempo per trovarmi un albergo, in realtà una stamberga, perché la casa di Emergency, giustamente, doveva ospitare solo il personale di Emergency.
Ero a Kabul senza un satellitare, «ma ti mandano in giro senza nemmeno un satellitare?» mi redarguiva Gino. E quando alla fine ho trovato ospitalità nello stesso quartiere, andavo da lui tutte le sere per spedire il mio pezzo e a volte rimediavo anche un bel piatto di pasta.

IL LAVORO NELL’OSPEDALE di Kabul, che ho visitato molte volte e in periodi diversi, è senza dubbio straordinario, anche perché svolto in una situazione estremamente complicata, come quando dominavano i talebani. Emergency era attiva anche nel Panshir, controllato dall’Alleanza del nord di Massud e più tardi a Lashkar-Gah, la città nelle ultime ore caduta nelle mani dei Taleban.
Nel 2003 ero a Baghdad quando vi giunse una «missione» di Emergency – recapitandomi un po’ di risorse inviate dal manifesto per permettermi di sopravvivere in Iraq – che voleva esaminare la possibilità di intervenire sul terreno. Un terreno minato in tutti i sensi.

E POI L’AFRICA – con centri pediatrici e di cardiochirurgia a Kartum – e perfino l’Italia, dove il terremoto, i migranti, i più fragili hanno reso necessario l’intervento di Emergency.
Ma Gino se ne va pensando e scrivendo sull’Afghanistan e ricordando quegli «eroi di guerra» che stanno soffrendo mentre il paese sta sprofondando in un nuovo baratro.
Per ricordare Gino senza retorica non resta che continuare il suo impegno, che è anche il nostro, contro la guerra.