Quattro proposte per ricostruire il campo
A cinque mesi dalle elezioni il quadro del paese è drammatico. L’economia è in depressione, il disagio sociale si aggrava, la crisi politica appare senza sbocco. La promessa di un […]
A cinque mesi dalle elezioni il quadro del paese è drammatico. L’economia è in depressione, il disagio sociale si aggrava, la crisi politica appare senza sbocco. La promessa di un […]
A cinque mesi dalle elezioni il quadro del paese è drammatico. L’economia è in depressione, il disagio sociale si aggrava, la crisi politica appare senza sbocco. La promessa di un cambiamento – al centro della campagna elettorale della coalizione “Italia bene comune” tra Pd e Sel – è stata affondata dai 101 grandi elettori del Pd che hanno affossato la candidatura di Romano Prodi alla presidenza della Repubblica. La scelta di costruire il governo delle larghe intese con Berlusconi ha spaccato il campo delle forze democratiche e “tradito” gli elettori del centro-sinistra.
Sinistra Ecologia Libertà è ora una forza di opposizione parlamentare al governo delle larghe intese che ha cercato e cerca una coerenza tra gli impegni elettorali e un’azione di cambiamento. Un’azione che apra la possibilità di un pensiero e di una politica alternativa all’esistente, mentre il governo – usando la crisi e la diffusa paura sociale – presenta le proprie ricette come uniche, obbligate e indiscutibili.
Il nostro lavoro alla Camera tenta, quindi, di ricostruire un legame tra l’agenda politica e le attese di cambiamento che ci sono nel paese: l’abbiamo fatto con le iniziative per bloccare l’acquisto dei caccia F35, fermare la Tav e ridiscutere l’uso delle risorse pubbliche, difendere il lavoro, democratizzare la rappresentanza sindacale, promuovere i beni comuni, introdurre un reddito minimo garantito, assicurare i diritti e il rispetto delle donne, tutelare i diritti delle persone omosessuali, dare la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati. Ma tutto questo non basta.
Servirebbe un Pd con una politica coerente con le promesse elettorali, un Movimento Cinque Stelle che passi dalla retorica contro la “casta” a un’opposizione concreta per costruire un’alternativa di governo. Servirebbe un rapporto stretto con le città e le regioni governate dal centro-sinistra – a partire da Milano, Roma, Genova, Cagliari – dove si sperimenta una discontinuità con le politiche del passato. Servirebbero legami stretti con il sindacato, i movimenti, la società civile, con le mille esperienze locali che contrastano il degrado del paese e costruiscono dal basso piccole, indispensabili risposte alla crisi. Servirebbe difendere la nostra Costituzione da scorciatoie plebiscitarie, per affermarla e applicarla. Servirebbe riprendere a parlare con gli elettori che a febbraio avevano espresso – col voto al centro-sinistra, ai Cinque Stelle o alle forze rimaste fuori dal Parlamento – una speranza di cambiamento politico e sociale e che oggi si ritrovano orfani e dispersi. Servirebbe, insomma, una sinistra.
Non è un’esigenza astratta di ricostruzione della politica. E’ un bisogno immediato per fermare l’avvitamento della crisi. Il governo di Enrico Letta – quando non rinvia le decisioni, come per l’Imu e l’Iva – procede sulla strada sbagliata dell’austerità imposta dai poteri europei e dal governo Monti. Si impegna a rispettare a tutti i costi i vincoli di bilancio venuti dall’Europa, ma non presenta ancora la nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (il Def) che dovrebbe dirci quale politica economica intende seguire nei prossimi anni.
[do action=”citazione”]L’opposizione parlamentare di Sel e M5S da sola non basta. Per uscire dalla crisi costruiamo, per le elezioni europeee, il nostro cronoprogramma[/do]
Di fronte allo shopping straniero delle imprese italiane, alla perdita di un quarto della capacità produttiva del paese, il governo Letta propone misure abborracciate come quelle del “decreto del Fare” e non pensa a una nuova politica industriale. Lascia fare alle strategie delle poche grandi imprese rimaste nel nostro paese che – come mostra il caso da manuale della Fiat-Chrysler – condizionano la loro presenza in Italia alla riduzione dei diritti, delle libertà e del costo dei lavoratori: una strada di corto respiro che non offre nulla al paese. Dove il governo potrebbe orientare la produzione, come nel caso della presenza pubblica in Finmeccanica, non si sceglie di ridimensionare le produzioni militari a favore di quelle civili, aprendo nuove attività nei settori emergenti delle tecnologie per le smart cities, dai sistemi di mobilità alle energie rinnovabili. Al contrario, quando le inchieste della magistratura sulla corruzione hanno decapitato i vertici del gruppo, alla presidenza di Finmeccanica il governo Letta ha nominato Gianni De Gennaro, il capo della polizia del G8 di Genova: al posto di competenze industriali e manageriali, il gruppo è ora guidato da ex poliziotti, ex militari,ex ambasciatori e finanzieri.
Di fronte a una disoccupazione record, il governo Letta non rilancia la domanda, ma introduce ancora deregolamentazione del lavoro e incentivi alle assunzioni che non avranno effetti. Nessuno dei molti “tavoli di crisi” aperti nei ministeri ha trovato soluzioni per la difesa del lavoro e dei lavoratori. Gli “esodati” creati dalla pessima riforma Fornero sulle pensioni nascondono ormai al loro interno decine di migliaia di veri e propri licenziamenti, che non sono più tutelati dai prepensionamenti fai da te della mobilità volontaria verso una pensione che si allontana sempre più. A queste lavoratrici e lavoratori servirebbe una nuova riforma delle pensioni che tuteli i diritti e, abbassando l’età pensionabile, distingua tra i diversi lavori svolti.
Lo stesso avviene su mille altre questioni: i giovani senza futuro, l’ambiente senza tutela, la scuola umiliata, la sanità in via di privatizzazione, l’acqua che già lo è stata, l’università e la ricerca senza risorse, il fisco sempre più ingiusto, le disuguaglianze sempre più gravi.
E’ possibile una politica che affronti questi problemi e non sia un chiacchiericcio autoreferenziale? Una politica che non si riduca alle polemiche sui congressi di partito o al posizionamento tattico di aspiranti leader, correnti e cordate? Nel nostro lavoro in Parlamento sentiamo in modo drammatico la distanza tra l’agenda della politica ufficiale e quello che sta succedendo nel paese. Le nostre battaglie d’opposizione provano a ridare voce e rappresentanza alle richieste di cambiamento, ma c’è bisogno di molto di più: di un salto nell’impegno collettivo, di una ripresa di fiducia nelle mobilitazioni. C’è bisogno di partiti – e di una politica – capaci di organizzare l’ascolto di quello che succede nella società. C’è bisogno di una discussione aperta nel paese, con gli elettori del centro-sinistra, quelli dei Cinque Stelle, quelli che si sono astenuti o non sono rappresentati.
Una risorsa essenziale in questo lavoro è la sinistra diffusa, sociale e plurale, che vive nelle esperienze del sindacato, dei movimenti, delle mobilitazioni per la pace, i beni comuni, la tutela del territorio. Un mondo ignorato dai palazzi romani – evocato soltanto alla vigilia degli appuntamenti elettorali – ma che potrebbe rimescolare le forme della politica, le identità, i modi di organizzarsi.
Quattro cose si potrebbero fare. La prima è definire pochi punti chiave: come uscire dalla crisi, chiudere con le politiche liberiste, progettare uno sviluppo meno diseguale e insostenibile, difendere la democrazia e la Costituzione. Presentare tutto questo con un linguaggio diverso, un lessico del cambiamento capace di uscire dalle secche della politica dei partiti.
La seconda è costruire un “campo del cambiamento” – al di là delle appartenenze di partito – in cui soggetti politici, movimenti sociali e sindacali, società civile organizzata possano – con pari dignità – intrecciare relazioni, uscire dall’autoreferenzialità, costruire una rete solida che avvicini la politica alla società, renda efficaci e prolifiche le mobilitazioni, renda possibile il cambiamento. E’ questa la via – ci sembra – per ricostruire identità collettive, dare un volto a quello che può diventare un blocco sociale post-liberista, progettare le politiche dell’alternativa.
Come farlo? La terza cosa che potremmo fare è promuovere cento iniziative pubbliche in tutta Italia che discutano, riaprendo spazi e tornando nelle piazze. E queste voci, persone, gruppi, pratiche dal basso potrebbero essere il cuore di una quarta iniziativa: una campagna per le elezioni europee del maggio 2014 che faccia discutere dell’altra Europa che vogliamo. Vogliamo provarci?
Giorgio Airaudo e Giulio Marcon sono deputati indipendenti di Sel
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