Quarant’anni di Aids. Pandemia da debellare
Hiv Ieri la giornata mondiale
Hiv Ieri la giornata mondiale
C’è una pandemia in corso da quarant’anni. Era il 1981 quando vennero fatte le prime diagnosi dell’Aids. I pazienti si infettavano e morivano velocemente, spesso di polmonite come accade oggi con il Covid-19. Da allora si stima che la malattia abbia colpito 78 milioni di persone nel mondo e che 35 milioni di persone siano morte per malattie legate all’Aids, 45 mila in Italia. Di Aids oggi non si muore, se la malattia viene presa e trattata per tempo. Ma non è ancora stato trovato il modo di eradicare il virus dell’Hiv dall’organismo. E resta la sfida lanciata dall’Organizzazione mondiale della sanità, di battere l’epidemia entro il 2030.
Come è stato ricordato ieri da più parti in occasione della Giornata mondiale di lotta all’Aids, i fattori culturali, sociali ed economici contribuiscono a far circolare il virus. Si calcola, ad esempio, che il 60% dei casi registrati nel 2020 era stato infettati anni prima della diagnosi: si scopre di esser sieropositivi già in fase avanzata di malattia». «C’è bassa percezione della circolazione dell’Hiv, si ritiene che sia un problema legato agli anni Novanta o ad alcuni sottogruppi di popolazione. Ma non è così, l’Hiv circola ed è legato a comportamenti sessuali a rischio», dice Barbara Suligoi, direttore del Centro operativo Aids dell’Istituto superiore sanità. Suligoi ha spiegato che «oggi l’incidenza più elevata da infezione da Hiv è tra i giovani tra i 25 e i 29 anni, tra i quali c’è una bassa percezione del rischio Hiv. Per questo i giovani vanno sensibilizzati all’utilizzo del preservativo».
A causa di questa esposizione dei più giovani Carla Garlatti, dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, chiede che i minorenni possano accedere in autonomia ai test per l’Hiv. «Questo a condizione che ciò avvenga in un contesto protetto e dedicato nell’ambito del Servizio sanitario nazionale e che, in caso di positività al test, i genitori o il tutore siano immediatamente avvertiti».
C’è poi lo scenario globale. A causa della carenza di risorse sanitarie e della distanza che li separa dai centri di cura il 28% dei pazienti con Hiv adulti che vivono in Africa orientale e meridionale e il 42% dei sieropositivi in Africa occidentale e centrale non ricevono costantemente la terapia antiretrovirale. Una ricerca internazionale coordinata dall’Università di Cincinnati, pubblicata su Plos Global Public Health ha calcolato che un milione e mezzo di persone con Hiv in Africa Sub-Sahariana, regione con il più alto numero di nuove infezioni al mondo, vivano a più di un’ora di macchina dal più vicino centro di assistenza sanitaria. E che la metà della popolazione con Hiv in Africa viva nei diciassette paesi nei quali l’accesso all’assistenza sanitaria è gravemente limitato. Un accesso più facile alle cure avrebbe ricadute sull’Aids, ma anche in relazione alla pandemia di Covid-19. «La prevalenza dell’Hiv è estremamente alta nella regione africana, nonostante gli sforzi compiuti per molti decenni – ha affermato Hana Kim, uno degli autori dello studio – La soppressione virale è importante perché rende queste persone sane e non infettive, contribuendo a limitare la trasmissione della malattia».
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