Quanto vale lo storytelling di Matteo Renzi
Se ieri si sollevavano allarmi per l’invasività mediatica di Renzi, oggi quegli allarmi, se non scomparsi, sono certo più deboli. Forse perché la preoccupazione di ieri ha ceduto il posto […]
Se ieri si sollevavano allarmi per l’invasività mediatica di Renzi, oggi quegli allarmi, se non scomparsi, sono certo più deboli. Forse perché la preoccupazione di ieri ha ceduto il posto […]
Se ieri si sollevavano allarmi per l’invasività mediatica di Renzi, oggi quegli allarmi, se non scomparsi, sono certo più deboli. Forse perché la preoccupazione di ieri ha ceduto il posto alla constatazione, oggi sempre più evidente, di un rapporto inversamente proporzionale tra la sua esposizione mediatica, che ha ripreso in estate ad essere persistente e da settembre martellante, e i consensi elettorali, con un Pd dato oggi al 23,4 %, quando a maggio era al 30% ed ancora a luglio al 27%.
Che ci fosse qualcosa che non funzionasse, nonostante le apparenze rutilanti, nel rapporto tra l’ex premier e i media lo aveva detto in tempi non sospetti (due anni fa) lo studioso Paolo Natale, sollevando il dubbio, alla luce di alcune ricerche sul gradimento dell’Italicum, che la forza dello storytelling renziano fosse soltanto un mito: un fenomeno di brevissima durata, molto differente dalla tenuta di quello berlusconiano, ben più duraturo e produttivo di consensi (Comunicazione Politica, n.1, 2016).
Certo, i sondaggi sono solo sondaggi e vedremo poi i dati reali che usciranno dalle urne.
Ma una tendenza appare netta: l’aumento dell’intensità e della frequenza del going public del leader Pd non corrisponde ad un virtuoso aumento delle simpatie per lui e il suo partito. Un fenomeno iniziato prima del caso ‘Boschi’, ma che adesso sembra più evidente anche per gli effetti del primo.
Ora a noi pare che il problema principale del politico toscano, al netto di tutto il resto, sia stato quello di non essere riuscito a cambiare paradigma al discorso pubblico, a scartare di lato rispetto a quello che gli studiosi chiamano il frame, cioè il tema portante, la cornice in cui s’inscrive il dibattito, in questo caso politico, sui media.
Nell’ultimo anno il frame, appunto, è stato inesorabilmente segnato dal post-referendum e dalla sconfitta renziana.
Tutto quello che è accaduto nel Pd e fuori di esso è stato letto dal sistema dei media alla luce di questo fatto, costringendo alla fine l’ex premier, in questo vittima delle sue comparse, a parlare quasi sempre delle stesse cose: reimmettendo nel circolo comunicativo proprio quegli argomenti intorno ai quali si era costruita la mobilitazione ‘contro’ del 4 dicembre.
L’agenda, che pure lui ha dettato, è rimasta impigliata in quello schema, senza che Renzi fosse capace di rovesciare il tavolo.
Questa inadeguatezza, sua e dei suoi collaboratori, a gestire con intelligenza la propria comunicazione politica la si è vista, in ultimo, con la scelta suicida di favorire lo scontro sulle banche: fornendo con ciò agli avversari un assist formidabile che riportava sulla scena, comunque ed in ogni caso, le vicende di Boschi padre e figlia.
Un errore grave che, aggiunto a tutto il resto, getta una luce negativa sulla reale qualità della narrazione renziana, una volta esaurita (e contraddetta) la vecchia ‘rottamazione’.
Renzi, che giovedì scorso è comparso a Piazza Pulita ( risultato un più 0,6% rispetto alla puntata precedente) in un programma che in passato aveva attaccato con l’accusa di disinformazione e pochi ascolti («fa meno dell’ennesima replica di Rambo»), non ha saputo sottrarsi al gioco dei media: per amore di potere, per cecità politica, per voglia di rivincita. Tanto che oggi stare sui media per lui appare davvero controproducente.
Un curioso paradosso per chi ha seguito la politica italiana di questi ultimi vent’anni e un vero case study per molti mass mediologi.
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