Quanto sono antipatici i ragazzi che occupano le scuole
L'opinione Con i ragazzi che tornano a occupare le scuole, viene smentita la rappresentazione, totalmente falsa, di una generazione omologata e disinteressata alla politica
L'opinione Con i ragazzi che tornano a occupare le scuole, viene smentita la rappresentazione, totalmente falsa, di una generazione omologata e disinteressata alla politica
Suonano stonate le ramanzine di alcuni opinionisti verso gli studenti per gli atti di vandalismo durante l’occupazione di alcuni licei della capitale. Un richiamo all’ordine fastidioso e fuori luogo nei confronti di ragazzi e ragazze sequestrati, da ben due anni, da un virus che continua a colpire sotto mentite spoglie, imponendo le sue ferree regole. Studenti penalizzati nell’età migliore per imparare, impossibilitati a fare esperienze e ad aprirsi al mondo esterno.
ORA, QUEGLI STESSI che vedevano nelle manifestazioni per la vittoria agli europei di calcio la rinascita di un sano orgoglio nazionale e di uno spirito di comunità, mostrano disapprovazione e fastidio per le occupazioni scolastiche così come per lo sciopero generale dei lavoratori. Non si aspettavano la ripresa del conflitto sociale. Sono rimasti spiazzati da un movimento che si riappropria dei suoi spazi. Non pensavano che i ragazzi facessero sentire la loro voce e si mobilitassero per contrastare i cambiamenti climatici, per ridurre le diseguaglianze sociali e per estendere l’area dei diritti. Le occupazioni scolastiche hanno smentito la rappresentazione, totalmente falsa, di una generazione omologata e disinteressata alla politica.
Si fa un gran parlare degli adolescenti. Secondo recenti indagini molti di loro hanno una scarsa padronanza della lingua italiana, molti altri soffrono di disturbi psichici (ansia, depressione, e così via), fenomeni preesistenti, ma che con la pandemia si sono aggravati. Le ragioni di questo disagio e malessere sono diverse, ma alcune appaiono chiare e precise. E’ inutile girarci intorno. I ragazzi sono diventati delle cavie, volutamente o meno non importa. Usati per sperimentare la costruzione del prototipo dell’uomo che vive sotto costante profusione tecnologica, rimodellato in funzione delle esigenze del mercato. Ragazzi e ragazze restano impigliati nella rete di internet come in un labirinto senza vie d’uscita. Bombardati da una quantità indefinita di informazioni.
FAMIGLIE E DOCENTI assistono impotenti a quella che sembra configurarsi come una vera e propria mutazione antropologica. Senza che si veda all’orizzonte un provvedimento legislativo che affronti il toro per le corna ed impedisca questa violenza quotidiana. Non è naturale né inevitabile che la vita reale sia sopraffatta da quella virtuale, gestita dai padroni delle tecnologie digitali. Ben vengano dunque le lotte.
Anzi, sono da incoraggiare ed estendere. Se la rabbia compressa esplode ed è indirizzata su obiettivi concreti di cambiamento vuol dire che c’è ancora speranza. L’autocritica è passata di moda a sinistra, ma quella sul rapporto con le nuove generazioni sarebbe una delle prime da fare. In questa guerra alla pandemia è mancata una “chiamata alle armi” dei giovani. Dovevano essere schierati loro in prima fila a respingere il fragoroso attacco per strumentalizzare le restrizioni dovute al Covid e per alimentare i peggiori istinti: egoismi, chiusure, paure e odio.
I movimenti no vax e no green pass si sono fatti interpreti di una concezione della libertà individuale assoluta, che viene prima di ogni cosa e si pone come la negazione stessa della comunità. Una concezione che proietta l’individuo in un universo di concorrenza totale. Un ritorno all’homo homini lupus. Invece di concentrare l’attenzione sul nemico da battere, il virus, e dare un senso nuovo e solidale alla vita in comune, le privazioni e le rinunce sono diventate un pretesto per sollevare – soprattutto da parte di settori di destra, ma pure di alcuni intellettuali considerati di sinistra – la bandiera dei diritti individuali e delle garanzie democratiche, che sarebbero minacciate dallo stato d’emergenza.
LA PANDEMIA, oggettivamente, è diventato il terreno sul quale si contrappongono due visioni di società. Da un lato, l’idea liberale di individuo, l’uomo borghese, il self-made man (l’uomo che si fa da solo). Dall’altro, un’idea di uomo come “animale sociale”, zoon politikon, secondo la definizione aristotelica. L’individuo che vive (e si realizza) in società, nella polis. Rimane valida e attuale la critica di Marx alle robinsonate, termine con cui prende di mira il mito dell’individualismo assoluto, dell’uomo completamente sradicato dalle sue origini storiche e dalla società.
Declinare il concetto di libertà in astratto vuol dire operare un autentico “rovesciamento”, come ci ha insegnato Marx. Accettare in concreto la dipendenza degli individui dal mercato e dagli obblighi alienanti delle nuove tecnologie. La totale sottomissione al mercato e alla legge del profitto in cambio di un’apparente libertà individuale! Se non si riannodano i fili della politica e dei rapporti intergenerazionali; e se non si capisce che la libertà individuale non è “individualismo” ma riconoscersi in una comunità che resiste unita alla violenza del male, non c’è salvezza per nessuno.
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