Di certo la maggior parte degli italiani non se n’è accorta (i problemi a cui pensare non mancano di questi tempi), ma chi si occupa di libri per lavoro ha di recente assistito – e spesso partecipato – a una polemica che si ripropone da anni, eppure continua a suscitare reazioni appassionate: leggiamo più o meno di prima? i libri contano ancora?

Si è battagliato sui numeri, da un lato ricordando che «Fabio Volo pubblica un libro ogni due anni, e ogni due anni è primo in classifica – solo che nel 2009 essere primo in classifica valeva seicentosettantaquattromila copie, nel 2021 centonovantaquattromila» (meno di un terzo), dall’altro ribattendo che «lo scorso anno gli italiani hanno comprato quasi 113 milioni di copie» mentre «nel 2019 – prima del lockdown – le copie erano 99 milioni». E come sempre in questi casi, ognuno è rimasto della propria opinione, al massimo concedendo agli avversari la solita battuta: «La questione è complicata».
Già, la questione è complicata, anche perché l’idea stessa di lettori e di lettura è più sfrangiata di quanto i contendenti siano disposti ad ammettere. Qualcosa del genere, del resto, si è detto in Spagna, dove – tutto il mondo è paese – una discussione analoga si è svolta a margine di un festival, «Punt de lectura», che si tiene da tredici anni in un piccolo centro catalano, Agullana.

In un articolo uscito su Espacio público e titolato «Es un tópico decir que antes se leía más» («È un luogo comune dire che una volta si leggeva di più»), la giornalista Marià de Delàs riporta i pareri dell’ideatore della rassegna, Enric Tubert, storico dell’arte e docente di letteratura, e di un’autrice invitata, Maria Mercè Roca, concordi nel sostenere che «la lettura è sempre stata un’attività minoritaria», ma che oggi «molte più persone sanno leggere rispetto al passato e dunque inevitabilmente ci sono più persone che si accostano alla letteratura». E se vogliamo che i numeri crescano, «la chiave – dice Tubert – si trova in famiglia, a scuola e in biblioteca, un luogo in cui avvengono miracoli». (Qualcuno lo ascoltasse a Genova – «capitale del libro» 2023 – dove il comune non riesce ad assumere i sei bibliotecari già selezionati da un concorso pubblico!).

Chi non ha dubbi che i libri si vendano (e magari si leggano pure) è l’Economist che – a modo suo giustamente – opera un distinguo: di che libri parliamo? «L’editoria – scrive l’anonimo estensore di un articolo uscito sull’ultimo numero del settimanale britannico – è un’attività strana. Vale circa 37 miliardi di dollari solo in Gran Bretagna e in America, ma non lo si direbbe dalla letteratura che produce, che si concentra su libri intellettuali invece che su qualcosa di così volgare come i titoli che vendono davvero. Un’autorevole storia della letteratura inglese contiene oltre sessanta menzioni di Shakespeare, dieci del ‘sublime’, otto del blank verse, ma il vuoto pneumatico circonda concetti come ‘business’ e ‘fatturato’».

Shakespeare? Il sublime? Suvvia! Per fortuna, a rimettere le cose in sesto, ci pensa l’Economist, spiegando che «il settore librario dipende dai disprezzati bestseller», prima fra tutti Danielle Steel, che nel 2023 solo nel Regno Unito ha venduto 268.000 copie, mentre a raggiungere le 5.000 copie ritenute necessarie per il pareggio è stata, secondo Nielsen BookData, una percentuale infima, lo 0,4% dei titoli pubblicati. Se poi qualcuno vuole emulare la regina del romance, l’Economist ha la risposta pronta: frasi brevi e ripetitive, sfondi esotici, e soprattutto scrivere scrivere scrivere «finché non sanguinano le unghie» (Steel dixit). Non si sa se verranno fuori capolavori, ma (forse) nessuno potrà dire che non si vende più come un tempo.