Quanta fretta a dichiarare fallita l’alleanza Pd-M5s
Sugli ostacoli che gravano sull'alleanza tra Pd e 5S occorrerebbe un lungo discorso che però non può partire dalla recente vicenda ligure dove, unica tra le regioni, è stato individuato un candidato unitario poi uscito sconfitto dal voto
Sugli ostacoli che gravano sull'alleanza tra Pd e 5S occorrerebbe un lungo discorso che però non può partire dalla recente vicenda ligure dove, unica tra le regioni, è stato individuato un candidato unitario poi uscito sconfitto dal voto
L’esito del tentativo di Ferruccio Sansa di togliere la presidenza della Liguria alla destra mettendosi alla testa di una coalizione tra Pd, Movimento 5S e Sinistra (Linea Coindivisa) è stato subito rubricato come un totale fallimento. Essendo questo l’unico caso in cui l’accordo tra le forze di governo si era effettivamente realizzato, l’insuccesso è stato indicato come prova provata che tale accordo è destinato a fallire. Si tratta di un’analisi affrettata e superficiale, subito fatta popria da esponenti recalcitranti del Pd che non hanno esitato a puntare il dito sull’errore compiuto scegliendo Sansa come candidato presidente.
Sugli ostacoli che gravano sull’alleanza tra Pd e 5S occorrerebbe un lungo discorso a parte che non c’è spazio per fare. Ma certo non va cercata qui l’origine della sconfitta. I motivi sono altri, molto specifici. In nessun caso imputabili a lui. Il primo è che la sua candidatura, presentata col sostegno di numerose forze vive dell’associazionismo e di personalità note a Genova, approvata dai vertici nazionali di Pd e 5S, è stata tenuta in sospeso per due mesi dai veti incrociati dei gruppi politici locali che dovevano promuoverla.
Risultato: la campagna elettorale di Sansa è durata praticamente un mese (agosto): troppo poco per far conoscere il programma di un outsider, convincente nel delineare una Liguria alternativa a quella del rivale Toti, e per dar forza al suo messaggio non affidato ai toni gridati e alle promesse inattuabili, ai capri espiatori e alle esibizioni plateali. Tutto questo in una regione nella quale la vecchia classe dirigente che ha governato per decenni è da tempo fortemente logorata e piuttosto screditata.
Il secondo è la forza dell’avversario. Toti ha saputo proporre un’immagine di concretezza e di efficienza, è riuscito a occultare i disastri combinati nella sanità pubblica già in corso di ridimensionamento e gli errori nella gestione del Covid, ha sfruttato propagandisticamente la ricostruzione del Ponte come se fosse opera sua e del sindaco Bucci o quasi, ha utilizzato l’appoggio della Lega senza mai indulgere ai toni salviniani e ha imposto il suo messaggio grazie a un controllo pressoché totalitario dei media televisivi locali, pubblici e privati ormai quasi interamente al suo servizio.
In queste condizioni, la vittoria di Sansa sarebbe stata un miracolo e il traguardo raggiunto, vicino al 40% va considerato molto significativo. Sansa ha avuto il merito di proporsi non come il mediatore tra due forze costrette a collaborare, ma come l’autore di una proposta programmatica e ideale che andava oltre le divisioni. Ha rimarcato fortemente la sua autonomia da entrambe ma ha indicato un terreno unitario. Gradito e ben conosciuto ai 5S anche in quanto collaboratore del Fatto Quotidiano, non ha esitato a criticare Grillo e di Maio e ha accolto le ragioni di chi ha scelto il no al referendum sul taglio dei parlamentari. La sua candidatura conteneva quel grado minimo di credibilità e di novità che manca da tempo agli ambienti della sinistra regionale e che i 5S hanno da tempo dilapidato.
Ora dobbiamo augurarci che il suo lavoro prosegua nella direzione avviata e che sia scongiurato il reflusso dei partiti e dei gruppi che lo hanno sostenuto nella coltivazione del proprio più o meno arido orticello. Se non capiamo che occorre costruire un orizzonte comune, articolare meglio un programma alternativo e cominciare a praticarlo con coerenza ricostruendo i legami col territorio, anziché dedicarsi a rimarcare a futura memoria (a futura elezione) i propri elementi distintivi, possiamo tranquillamente rassegnarci a sopportare Toti non solo per cinque anni ma per molto di più.
Toti non è un demagogo che gira coi rosari al collo, si mette la mascherina un giorno sì e uno no, sbraita un giorno sì e uno no contro l’Europa, catalizzatore di consensi fanatici ma esposto agli sbandamenti. Solo lavorando sui tempi lunghi con un progetto seriamente alternativo, attingendo a energie giovani già presenti e suscitandone altre, liberandosi dalle vecchie cariatidi in disarmo di un’epoca tramontata e accettando le sfide di un mondo globale che ogni giorno rivela le sue drammatiche complessità e reclama scelte nette, possiamo sperare di uscire dal tunnel del declino che appare ormai già troppo lungo.
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