Calafiore è un uomo che mangia, ciò lo definisce per gli altri e per se stesso, si abbuffa, si lancia nel cibo, ingurgita gelati e surgelati, cozze, vongole e barattoli di maionese, ogni suo pensiero lo riporta al ricordo del cibo, ogni parola ha un retrogusto, la necessità lo spinge a ingozzarsi, senza sosta, finché il frigo non è vuoto, finché il piatto non è rotto.

IL SUO CORPO vive sotto il peso non solo dei suoi chili ma degli sguardi altrui, quelli che fin da bambino lo hanno giudicato, colpevolizzato, denigrato, sminuito, sbeffeggiato. E lo stesso Calafiore quando parla di sé dice di essere come una enorme arancina con la testa a punta, senza collo, la pancia che fa sparire piedi e braccia, un unico blocco di grasso, di sudore, di carne molle.
La sua vita cambia quando incontra qualcuno che lo vuole mangiare. Il corpo vilipeso, per molti inavvicinabile, intoccabile e ripugnante, viene visto da due giovani cannibali degli anni Duemila come un pasto gustoso, simbolico, appetibile perché antisociale, indifendibile e succoso, un pasto che vuole essere un gesto di rivolta.
In Calafiore (Nutrimenti, pp. 208, euro 14,45), Arturo Belluardo galoppa a briglie sciolte nel genere pulp, usa lo splatter come categoria esistenziale, porta in scena un brulicare di ministri, politici, vip della televisione, personaggi dei fumetti, la sua scrittura ingoia cultura pop e trash come il suo protagonista mangia tramezzini al tonno.

MA SOTTO LA SCORZA durissima del bizzarro si muove la narrazione della debolezza, come già era stato nel suo romanzo d’esordio (Minchia di mare, Elliot 2016) in cui il piccolo Davide Buscemi doveva fare i conti col padre e si raccontava attraverso i suoi miti cinematografici, i fumetti e la musica.
Gli uomini di Belluardo non sono mai i piacenti, i ben vestiti, gli spavaldi; lui è sempre dalla parte dei cosiddetti perdenti, gli inetti, i disperati, gli umiliati: quelli che ancora sanno amare e quindi sono raggirabili. Anche Calafiore è così, un uomo preso in giro dalla prima all’ultima pagina, sulla cui pelle viene ordito un piano crudele, che starà alla lettrice e al lettore scoprire.

IL LIBRO DI CERTO non è una lettura per i deboli di stomaco ed è popolato da tantissimi diversivi (forse troppi) che sembrano spostarci dal fulcro pulsante e vitale della storia, ma va iniziato con la consapevolezza che saprà restituire quella giostra mediatica, ingorda, nullificante che è oggi la nostra società del consumo e dell’apparire, dove passano sullo stesso schermo del cellulare panini imbottiti, programmi di cucina, gare di soufflé, e modelle dal ventre piatto che sponsorizzano tisane miracolose, diete alla segale ed elettrodi per stimolare i muscoli delle cosce; dove fanno coppia la cattedrale di Notre-Dame che crolla e la pubblicità delle creme idratanti. La nostra è la società dell’assurdo e Belluardo assurdamente ce la racconta.