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Quando si congela il desiderio

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Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 21 luglio 2018

Nel 2014 Facebook e Apple hanno offerto alle loro dipendenti la possibilità di congelare il loro ovociti, per poter posporre la procreazione e realizzarla nel momento più opportuno per la loro carriera. Da allora molte donne hanno fatto ricorso al procedimento, ma, nella stragrande maggioranza dei casi, per motivi diversi da quello della carriera.

Secondo uno studio a cura di Marcia Inhorn, antropologa dell’Università di Yale, Pasquale Patrizio, responsabile del Centro Fertilità della stessa università, e Daphna Birenbaum-Carmeli dell’Università di Haifa, presentato in una conferenza internazionale in Spagna e non ancora pubblicato, ma messo a disposizione del New YorkTimes, lo stereotipo della donna ambiziosa che congela i suoi ovociti è fuorviante.

Quasi tutte le 150 donne intervistate dagli studiosi, per la maggior parte eterosessuali, tra i 29 e 42 anni (i tre quarti tra i 35 e i 39) e di alto livello di istruzione, nel momento della loro scelta avevano già raggiunto una buona posizione nel loro lavoro. Il motivo ricorrente della decisione presa era l’assenza di un partner con cui condividere un figlio o, la sua indisponibilità, quando era presente (nel 15% dei casi), a diventare padre.

È piuttosto curioso che donne prevalentemente alla metà dei loro trent’anni o poco più, disperino di trovare un padre giusto per i loro figli finché sono ancora in età fertile e pensino che lo possano trovare superata quella età. Quando saranno piuttosto in avanti con gli anni per poter stabilire con essi una relazione adeguata sul piano dell’impegno e del piacere psicocorporeo. Sembra che, in realtà, esse pospongano inconsciamente la maternità e l’incontro con l’uomo giusto a un momento ideale che mai verrà. L’idealità della scelta è il vero principio congelante che sospende la maternità perché sospende il desiderio erotico nei confronti dell’uomo.

La frustrazione cronica del desiderio della donna (più libero e per questo più aggredito socialmente di quello del maschio che si reprime da sé) favorisce un’identificazione rivalitaria con l’uomo atteso (la cui ottusità è vissuta e invidiata come dimostrazione di invulnerabilità).
L’identificazione compromette la possibilità di una compenetrazione erotica profonda con l’amante (che resta superficiale) e l’incontro vero è dilazionato all’infinito. Lo iato tra sé e l’altro desiderato creato dalla dilazione, è colmato dall’idea di un figlio: l’aspirazione inconscia della donna ferita di rinascere come maschio (anche quando desidera consciamente una figlia femmina), di impossessarsi di una protesi virile nel mondo in grado di renderla bastante a sé.

Il figlio che ripara impropriamente la ferita del desiderio, occludendo lo spazio dell’attesa, è un oggetto ideale onnipotente, non destinato a definirsi, che deve restare congelato su un piano di pluripotenzialità immaginaria. Nello spazio della consolazione che lenisce il dolore, il figlio che potrebbe nascere, non soggetto a limitazioni, è più importante del figlio che effettivamente nasce, un essere umano necessariamente incompleto, co-costituito con l’altro nella relazione erotica.

Le donne congelanti sono capaci di sentire che l’oggetto ideale si dimostra morto nel campo degli scambi reali della vita e sufficientemente sane per evitare di affidare a un figlio vero il compito di incarnarlo per farlo apparire vivo. Nella sospensione dell’appuntamento con la verità trionfa il loro pessimismo.

Esso ha una sponda solida nella crescita esponenziale del numero dei maschi spaventarti dalla paternità che, dimorando perennemente nello spazio materno, alimentano il dispositivo del congelamento.

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