Quando riaffiorano le immagini insepolte
Mostre A Villa Medici, fino al 19 maggio, la rassegna "Epopee celesti", a cura di Bruno Decharme e Barbara Safarova, con Caroline Courrioux e Sam Stourdzé e un testo introduttivo di Gustavo Giacosa sulla storia dell’art brut in Italia.
Mostre A Villa Medici, fino al 19 maggio, la rassegna "Epopee celesti", a cura di Bruno Decharme e Barbara Safarova, con Caroline Courrioux e Sam Stourdzé e un testo introduttivo di Gustavo Giacosa sulla storia dell’art brut in Italia.
Il Centre Pompidou di Parigi ha di recente (2021) destinato uno dei suoi spazi (livello 5) a un’acquisizione di rilievo: la collezione di Art brut di Bruno Decharme. Intenzione del donatore è stata quella di sottrarre queste opere (921 tra dipinti, sculture, fotografie), accumulate a partire dagli anni ’70 del ‘900, ai rischi del tempo e delle dispersioni. La collezione era già stata resa accessibile al pubblico nel 1999, da quando, attraverso la creazione dell’associazione “abcd” (art brut connaissance & diffusion) e insieme a Barbara Safarova che ne è presidente, Decharme aveva iniziato a promuovere la ricerca sull’art brut a partire proprio dalle opere della collezione. Ora una parte di esse è in mostra fino al 19 maggio a Villa Medici.
La rassegna si intitola Épopées célestes (Epopee celesti) ed è curata, oltre che da Bruno Decharme e Barbara Safarova, da Caroline Courrioux e Sam Stourdzé, con un testo introduttivo di Gustavo Giacosa sulla storia dell’art brut in Italia. Essa comprende autori già noti, fin dai tempi di Dubuffet, colui che nel 1947 coniò il termine “art brut”, e altri meno noti, o anonimi, acquisiti però con un occhio infallibile nel cogliere alcuni dati espressivi e nel considerare le affinità (mai immediate), le relazioni, i contesti. Lo sforzo curatoriale di dare ordine al caos, mantenendo intatta la potenza sovversiva di questa arte, è pienamente riuscito: le sezioni in cui si articola la mostra sono per una volta quello che devono essere, punti di partenza per orientarsi e ambiti tematici su cui interrogarsi. Di fatto, non c’è arte che ci interpelli più di questa, prodotta da personalità ai margini del flusso ordinario del mercato dell’arte, segnate da sofferenze psichiche, colpite dalla violenza della storia, della società, della famiglia e tuttavia capaci di (re-) inventare e a volte di metamorfizzare se stessi.
Così nella sezione Giornali dal mondo troviamo Aloïse Corbaz e Adolph Wölfi, che hanno sostituito un proprio mondo, che sono in grado di ordinare, a quello violento che li ha devastati psichicamente. Persone che affermano attraverso la propria creazione artistica un’appartenenza alternativa al proprio tempo, quella di “colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo” (Giorgio Agamben). Un’arte che ci chiama in causa, che è testimone del disagio di cui siamo partecipi. Nelle Anarchitetture ci sono autori che costruiscono con materiali di risulta torri di Babele claudicanti ed estremamente attraenti (Egidio Cuniberti, A.C.M.), organismi di un Altrove in cui è bello poter vivere, come negli edifici ideali di Achilles G. Rizzoli, alternativa a una civiltà che schiaccia, giudica, distrugge.
Nella sezione centrale della mostra, inconsueta all’interno di questo mondo di immagini già così perturbanti, si tratta dei Fantasmi, di quelle “immagini insepolte” che tornano a visitare gli artisti e le artiste che con l’aldilà hanno avuto a che fare. Si tratti di presenze che li hanno visitati, si tratti di precetti artistici avuti durante visioni, si ha un bel tentare di rimanere saldi nelle proprie convinzioni materialiste, davanti alla prepotente assertività delle creazioni fantasmatiche dell’indonesiano Angkasapura o di Maria Ratzingerová (nata nell’Austria-Ungheria, ora Repubblica ceca), è difficile limitarsi a un giudizio solamente estetico, come se – e questo è comune a quasi tutti questi creatori – fossimo chiamati a dare conto delle nostre personali ossessioni e devianze, come in uno specchio… E poi le Eterotopie scientifiche, esperimenti di creatività scientifica, magari in grado di salvare il mondo, per terminare con una panoramica di Cartografie mentali, luoghi in cui la parola scritta mantiene il suo valore iniziale di segno (i Sans titre di Mysera). Ma la sezione chiave è la penultima: Io è un altro ovvero le forme diverse delle metamorfosi, delle trasformazioni in corpi compositi umani e animali, o in elementi monocellulari, o in esseri primordiali, come i grandi cerchi e i cuori iscritti di Giovanni Bosco. Non l’altro fuori di sé ma l’altro che si è, che forse si sarà, che si sta diventando. Forse semplicemente un accogliente, protettivo, salvifico alter ego.
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