Cultura

Quando l’orologo non è in sincrono

Quando l’orologo non è in sincrono

Tra passato e presente Riflessioni intorno al libro di Piero Bevilacqua, «Ecologia del tempo», pubblicato da Castelvecchi

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 7 febbraio 2019

Ma come ho fatto a non interrogarmi su quando erano nati gli orologi? E da quando dai campanili sono passati ai polsi? Non mi ero mai resa conto che è solo a partire dall’introduzione di questo oggi così familiare attrezzo che viene via via sempre più soppressa la spontaneità dell’uomo, costretto dentro le maglie strette dello scandire delle ore. È da allora che prende le mosse il lungo processo che porta sempre più il tempo a sovrastare la vita quotidiana delle persone: astratto, divisibile, esterno all’esperienza umana e invece strumento di ordine e di controllo sociale. Oggigiorno sempre più ossessivo.

È INDUCENDOCI a riflettere sul tempo costretto dall’arco percorso dalle lancette dell’orologio che Piero Bevilacqua ci conduce via via nel suo ultimo libro (Ecologia del tempo, Castelvecchi, pp.108, euro 13) a ripercorrere la storia di questa macchina, nata intorno al Duecento, che non avevo mai percepita come micidiale e invece lo è e che, dal momento in cui viene immessa nello spazio sociale, diventa lo strumento che distribuisce il potere gerarchico fra gli uomini, divisi fra chi il tempo lo impone e chi lo subisce.
A inventarsi l’orario, vale a dire l’applicazione sociale dell’orologio, è stato san Benedetto – ci racconta l’autore– al fine di ordinare il tempo dei monaci, sicché il monastero diventa un modello virtuoso per l’intera società, la costrizione presentata come ordine superiore. E persino come fondamento etico: chi non misura il tempo è più vile delle bestie.
La gabbia temporale che consente l’appropriazione del tempo di vita di chi non ha il potere si sposa naturalmente con il capitalismo, ne è, anzi, la condizione. Il meccanismo per cui il lavoro estratto dall’operaio va ben oltre quanto è necessario alla sua sussistenza, il plusvalore di cui il capitale si appropria, porta a compimento la trionfale carriera dell’orologio. Un meccanismo sempre più schiacciante, che finisce per pervadere ogni momento della vita e verrà perfezionato nella fabbrica moderna disegnata dall’ingegner Taylor, che per sottrarre ulteriore tempo ai dipendenti finisce addirittura per immobilizzarli, affinché non sprechino neppure un minuto. A muoversi saranno le macchine, il pezzo da lavorare, la scocca, che passerà davanti a loro sulla catena di montaggio, il lavoro umano definitivamente disumanizzato. Lo sbocco glorioso della carriera sociale dell’orologio sarà a questo punto il cronometro.

L’OBIETTIVO del libro di Bevilacqua non è tuttavia denunciare il furto del tempo di vita umano, ma la disattenzione verso un’altra misurazione pur vitale: quella per il tempo di lavoro della natura. Quanto ne serve perché crescano il legno, i minerali, l’energia? La velocità delle macchine, e l’intensificazione del lavoro umano, servirebbero a poco – ci dice – se i tempi di riproduzione dei materiali che esse usano dovessero essere tanto lenti da renderli indisponibili per la fabbrica veloce.
Sta già drammaticamente accadendo con l’accelerazione vertiginosa del consumo delle materie necessarie alla crescita della produzione industriale che così brucia in poco tempo risorse che hanno avuto bisogno di millenni per accumularsi. Le cifre sono impressionanti: fra il 1950 e il 1988 la produzione di energie è aumentata del 500%; fra il 1950 e il 2005 quella dei metalli è cresciuta di sei volte, del petrolio di otto, del gas naturale di quattordici. Colpevoli non sono solo i vecchi opifici, ma anche le modernissime aziende elettroniche, per niente affatto «pulite»: basti pensare all’acqua usata per la lavorazione del silicio, o ai minerali necessari a telefonini e computer. Senza contare i guasti di quello che l’autore chiama «meccanismo dissipativo»: rendere i prodotti volutamente obsoleti in tempi brevi sì da accelerare la loro sostituzione.
Perché di questo tempo, della pur drammatica asimmetria che si è stabilita fra ritmi di produzione della terra e i ritmi di consumo dei suoi prodotti non ci si è preoccupati? C’è in proposito una omissione di Marx, che avrebbe calcolato solo la ricchezza sociale prodotta dal lavoro umano e della sua appropriazione privata e avrebbe invece ignorato quella delle risorse messe a disposizione dalla terra, vittima anche lui del mito dell’infinità della natura, una finzione che ha permesso per secoli l’appropriazione privata di acqua, ossigeno, suolo, sottosuolo, per il solo fatto che non si presentavano sotto forma di merce?

SI TRATTA DI UNA VECCHIA discussione su Marx che sarebbe restato cieco difronte a una verità di cui solo oggi possiamo prendere atto con pienezza, perché solo oggi è emerso il trucco che aveva occultato la scarsità delle risorse naturali e insieme il loro collegamento con la nostra organizzazione sociale. Giustamente Bevilacqua, pur riconoscendo un limite di «attenzione» in Marx, sottolinea contemporaneamente come egli sia stato ben consapevole che gli umani della terra sono solo possessori, non proprietari: «usufruttuari», ci dice citando un passaggio del III volume del Capitale, per cui la terra devono tramandarla, migliorarla, «come buoni padri di famiglia alle generazioni successive».
Questa discussione su Marx mi riconduce ai tempi – all’incirca alla fine degli anni ’70 – in cui per la prima volta entrarono sulla scena politica i Verdi e più in generale i movimenti ecologici. Fu un momento di furibondo confronto all’interno della stessa sinistra, fra chi attaccò chi aveva cominciato a parlarne asserendo che volevano tornare all’età pastorale (Lotta Continua, segnatamente, prese in giro il Manifesto con un famoso titolo «Come era verde la vostra vallata», accusandoci di voler distrarre l’attenzione dalla lotta di classe); e chi, con qualche approssimazione, pensò di invocare un Marx verde. Polemiche che scossero del resto anche il Pci, dove ancora alla metà degli anni ’80 non si riuscì a far passare una mozione antinucleare.

IN REALTÀ IN MARX i riferimenti alla natura sono numerosi, il più esplicito nel I capitolo del Capitale, laddove scrive (fra l’altro con un ironico uso della parola «progresso»): «Ogni progresso dell’agricoltura capitalista costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della fertilità per un dato periodo di tempo costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità». Per Marx, insomma, la natura sono la terra e l’operaio, queste «merci improprie» (perché non riproducibili dal capitale), ambedue fonti di ogni ricchezza. Un concetto che ripeterà in mote delle sue opere, in particolare nella polemica con Liebig.
È vero però che questi accenni che oggi chiameremmo ecologici, così come del resto altri temi proposti dalla ricchissima opera di Marx, sono stati via via lasciati cadere dal movimento operaio che, negli anni, ha finito per subire l’egemonia economicista del sistema capitalista che pur combatteva. Forse solo oggi si sono create le condizioni storiche per riscoprirli. Se posso ricordare il titolo di una relazione che feci a un convegno di paludati marxisti 35 anni fa, quando i primi movimenti ecologisti avevano cominciato a turbare lo scenario politico della sinistra europea, Il verde è componente necessaria del rosso. Piero Bevilacqua con questo suo Ecologia del tempo. Uomini e natura sotto la sferza di Crono ci dà un contributo decisivo nella battaglia che tuttora troppo timidamente la sinistra conduce per proporre e imporre una svolta atta a prevenire le catastrofi naturali annunciate. E lo fa scrivendo un libro che è anche una gradevolissima lettura.

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