Quando lo sguardo rivoluziona il mondo
BELL HOOKS Due traduzioni italiane, «Insegnare a trasgredire» e «Elogio del margine». Una raccolta di saggi sull’educazione come pratica di libertà (Meltemi) e un classico del femminismo (Tamu). Nata nel 1952 in Kentucky con il nome di Gloria Jean Watkins, sceglie il suo pseudonimo minuscolo come atto di rivolta verso l’egocentrismo autoriale. Classe, razza e genere determinano gerarchie sociali, regimi di visibilità e invisibilità, di inclusione ed esclusione
BELL HOOKS Due traduzioni italiane, «Insegnare a trasgredire» e «Elogio del margine». Una raccolta di saggi sull’educazione come pratica di libertà (Meltemi) e un classico del femminismo (Tamu). Nata nel 1952 in Kentucky con il nome di Gloria Jean Watkins, sceglie il suo pseudonimo minuscolo come atto di rivolta verso l’egocentrismo autoriale. Classe, razza e genere determinano gerarchie sociali, regimi di visibilità e invisibilità, di inclusione ed esclusione
Ci sono libri che ci interpellano, ci stanano, ci obbligano a interrogare la nostra posizione nel mondo, a riconoscere i poteri che subiamo e quelli che esercitiamo. Si può reagire rifiutandone la sollecitazione oppure, anche se può richiederci molto sforzo, coglierla come un’occasione. Perché sentirsi dire la verità può non essere piacevole. E bell hooks, intellettuale afroamericana di cui ultimamente sono uscite in italiano ben due opere, Insegnare a trasgredire (Meltemi, pp. 254, euro 18, traduzione di Feminoska) ed Elogio del margine / Scrivere al buio (Tamu, pp. 260, euro 16, traduzione di Maria Nadotti) è di quelle che dicono la verità. Verità intesa come parresia, come parola franca, che nasce dall’esperienza ed è strettamente legata all’esercizio della libertà e della democrazia.
BELL HOOKS è una delle più note esponenti del black feminism, autrice che si muove tra l’università e il dibattito pubblico occupandosi da più di quarant’anni di come l’intreccio di classe, razza e sesso organizzi forme di oppressione e silenziamento che delineano precisi posizionamenti nei confronti del nesso potere/sapere. hooks ci insegna che la cultura, le rappresentazioni mediatiche e letterarie così come l’educazione che riceviamo e/o impartiamo non sono mai politicamente neutre e lo fa con una scrittura intensa e accessibile in cui la teoria si radica sempre nell’esperienza.
Nata nel 1952 in un paesino del Kentucky con il nome di Gloria Jean Watkins, sceglie il suo pseudonimo minuscolo come atto di rivolta verso l’egocentrismo autoriale e di omaggio a un continuum matrilineare che ha inizio con la bisnonna materna Belle Blair Hooks. L’omaggio alle donne del passato è una pratica forte del femminismo anni 60-70 che in bell hooks rientra in un progetto intellettuale e politico volto a dare visibilità e voce a donne nere rimaste inascoltate, invisibili, cancellate dalla storia anche quando prendono parola pubblicamente e si scagliano contro il potere, come fece la schiava liberata Sojourner Truth a cui si ispira hooks quando nel 1973, ancora studente, scrive il coraggioso saggio Ain’t I a Woman. Black Women and Feminism pubblicato solo nel 1981.
La scuola è stata l’àncora di salvezza, per hooks, in un contesto di segregazione razziale dove però le insegnanti sono donne nere votate a una missione: permettere a bambine e bambini neri di nutrire il proprio intelletto e così facendo emanciparsi come singoli e come comunità. Tale esperienza le permette di conoscere il piacere dell’apprendimento e pone le basi per quell’erotica della pedagogia che hooks svilupperà da adulta. L’estasi cessa però con la desegregazione: «Improvvisamente, la conoscenza riguardava solo l’informazione. Non aveva alcuna relazione con il modo in cui una persona viveva e si comportava. Non era più collegata alla lotta antirazzista. Nelle scuole bianche imparammo presto che ciò che ci si aspettava da noi era l’obbedienza, e non la volontà zelante di imparare».
In un momento in cui la didattica, scolastica, universitaria o di comunità, attraversa un processo di trasformazione irreversibile che rischia di disincarnarsi e privilegiare nozionismo, obbedienza e spendibilità, queste parole ci invitano a riflettere sul ruolo dell’educazione e sulle pratiche che vogliamo adottare per favorire il pensiero critico, la creatività e l’inclusione sociale. Tanto più in un paese come il nostro in cui sia nel corpo studentesco sia nel corpo docente sono sempre più presenti persone razzializzate e discriminate.
Sull’attualità delle riflessioni pedagogiche di bell hooks attirano l’attenzione Rahel Sereke e Mackda Ghebremariam Tesfau’ nelle loro splendide introduzioni al volume Insegnare a trasgredire e il Gruppo di ricerca Ippolita che ne firma la postfazione.
TALE RACCOLTA di saggi sull’«educazione come pratica della libertà», per riprenderne il sottotitolo, si nutre della passione di hooks per la pedagogia libertaria e di un impegno nel femminismo e nel movimento antirazzista che non sono mai immuni da conflitti e contraddizioni. Ne sono esempio le belle pagine dedicate al pedagogista Paulo Freire che ne riconoscono il potenziale liberatorio e finanche terapeutico non nascondendone la problematicità. Perché, come ci esorta a riconoscere hooks, la pedagogia impegnata, quella capace di «trasgredire i confini di un approccio all’apprendimento simile a una catena di montaggio» e di «rispondere all’unicità di ognuno», connette la volontà di sapere alla volontà di diventare. In tal modo essa permette ai soggetti emarginati, feriti e traumatizzati dalla violenza sociale di guarire da mali che appaiono individuali senza esserlo: la rabbia, la depressione, la paralisi dell’azione, l’autoesclusione. Quando si sono attraversate esperienze accademiche dure ed escludenti, parole come queste suscitano dolore per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Ma anche gioia perché esse serviranno forse a formare insegnanti migliori e studenti più felici.
Dunque bell hooks ci invita a stare nella complessità, a non sprecare le risorse anche se sono impure. Il suo approccio è tanto più prezioso oggi in un panorama in cui il dibattito politico, condizionato dalle logiche comunicative dei social media, tende alla polarizzazione, alla costruzione narcisistica di piccoli feudi e schieramenti, all’espressione variegata delle passioni più tristi. Il femminismo di bell hooks è un esempio della sua capacità di coniugare pragmatismo e radicalità. Sin dai tempi di Ain’t I a Woman ha messo in evidenza il razzismo e il classismo all’interno di un movimento delle donne bianco e borghese da cui si sarebbe anche potuta allontanare per abbracciare unicamente la causa antirazzista. La marginalità, invece, è diventata il luogo di elaborazione di un punto di vista dirompente che ha mutato e arricchito il femminismo contribuendo al filone che oggi, da Kimberlé Crenshaw, chiamiamo intersezionale.
«ELOGIO DEL MARGINE», l’opera che negli anni ’90 esprime questa prospettiva, è un vero e proprio classico del pensiero. In Italia fu tradotto da Maria Nadotti nel 1998 per Feltrinelli e ora viene riproposto dalla casa editrice napoletana Tamu nelle sue parti più attuali insieme alla conversazione autrice/traduttrice Scrivere al buio edita sempre nel ’98 da La Tartaruga. Si tratta di una collezione di saggi che attraverso l’analisi letteraria e cinematografica mostra come classe, razza e genere determinino gerarchie sociali, regimi di visibilità/invisibilità, di inclusione/esclusione dall’accesso alle risorse simboliche e dall’elaborazione teorica. È la nostra visione stessa del mondo, delle strutture sociali, del ruolo epistemico delle emozioni a essere investita nel suo insieme quando si legge un libro così.
Certo è un testo femminista e antirazzista ma queste etichette non possono fungere da alibi per riservare una posizione circoscritta nella storia del pensiero a queste pagine intrise di vissuto, di analisi estetiche e di impegno politico sul fronte della democrazia, della libertà e dell’elaborazione di una cultura contro-egemonica.
COME SOTTOLINEA NADOTTI nella nuova introduzione: «bell hooks non riduce il suo discorso ai diritti, all’eguaglianza, e tantomeno alla ‘discriminazione positiva’ e alla ‘correttezza politica’. Con tutta evidenza la condizione catastrofica dei neri non è un errore del sistema bensì una sua struttura portante. In America, come in molti paesi d’Europa che si pensano democratici, i nigger non sono necessariamente di pelle nera: corpi a perdere ridondanti e precariamente indispensabili, vanno, vengono, scompaiono in mare o nelle periferie urbane, si impigliano nelle false burocrazie assistenziali, non lasciano traccia di sé e sembrano non averne del proprio passato». Il punto è dunque capire come intendiamo smettere di renderci complici di violenze quotidiane. Audre Lorde un giorno disse: «sono una donna Nera guerriera poeta che fa il suo lavoro e che è venuta a chiedervi: state facendo il vostro?».
Una postilla personale: sono grata ad Anna Maria Verna, docente di Storia delle donne all’Università di Torino quando questo insegnamento esisteva, che assegnava Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale tra i testi d’esame. Sono anche atti come questo che pongono il margine al centro, che trasformano il pensiero minoritario in cultura condivisa, che rivoluzionano lo sguardo e creano nuovi spazi d’azione in vista del futuro.
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