Quando l’Italia impazziva per i musicarelli
Al cinema «Nessuno ci può giudicare», il documentario di Steve Della Casa e Chiara Franchini che racconta il Belpaese (non troppo) spensierato dei '60 e i cantanti diventati star del grande schermo
Al cinema «Nessuno ci può giudicare», il documentario di Steve Della Casa e Chiara Franchini che racconta il Belpaese (non troppo) spensierato dei '60 e i cantanti diventati star del grande schermo
Nessuno ci può giudicare, regia di Steve Della Casa e Chiara Franchini è un’avvincente incursione negli anni ’60, fatta usando come grimaldello un’invenzione tutta italiana: i musicarelli. Negli Stati uniti Elvis aveva impazzato non solo con la musica ma anche con tantissimi film che lo avevano visto protagonista, anche i Beatles in Gran Bretagna avevano trovato un loro sbocco cinematografico. In Italia il fenomeno acquista una dimensione un po’ diversa. Adriano Celentano, Mina, Rita Pavone, Gianni Morandi, Tony Dallara, Caterina Caselli e moltissimi altri cantanti di quel periodo vengono tutti portati su grande schermo, tra gli altri, da Piero Vivarelli, Ettore Maria Fizzarotti, Lina Wertmüller. L’aspetto curioso sta nel fatto che gli esercenti cinematografici, all’inizio, non credevano minimamente nel fenomeno. Certo, bisogna ricordare che allora il cinema attirava spettatori a grappoli, ma quasi nessuno aveva colto il cambiamento epocale in corso.
In pratica per la prima volta i giovani e i giovanissimi si affacciavano al mondo con qualche disponibilità economica, erano stati loro a decretare il successo del rock, dei jeans, poi dell’anticonformismo, dei capelli lunghi per i ragazzi delle gonne corte per le ragazze, tutte cose che daranno il loro contributo prima alla contestazione giovanile poi ai movimenti più politici a livello planetario. All’inizio i giovani sono nuovi consumatori. Qualcuno tra quelli che facevano cinema se n’era accorto e gli aveva confezionato dei film appositamente pensati. Lucio Fulci nel 1959 I ragazzi del juke box e l’anno successivo Urlatori alla sbarra. Storie semplici che servivano da puro pretesto per i numeri musicali dei vari cantanti chiamati a essere anche (quasi) attori, a meno che non fossero Chet Baker che poteva dormire in una vasca da bagno.
E bisogna ricordare che Fellini, in La dolce vita ha piazzato un giovanissimo Celentano e cantare Ready Teddy. Secondo Steve Della Casa il termine Musicarello è una variante di Carosello, quindi un veicolo promozionale. Tra i materiali che inquadrano il periodo non mancano interviste a dei giovani di allora e lì una giovane operaia racconta come lei spenda il 30% per l’abbigliamento, il 50% per il divertimento e il resto lo dà in casa e subito aggiunge «altrimenti che senso avrebbe lavorare».
Forse è la frase più illuminante per comprendere il mutamento epocale in corso in quegli anni. Poi ci sono gli interventi di Don Backy, Caterina Caselli, Ricky Gianco, Mal, Rita Pavone, Gianni Pettenati, Shel Shapiro e del mai dimenticato Piero Vivarelli che contribuiscono a inquadrare quel fenomeno bizzarro, quando la leva era obbligatoria (e Morandi è in divisa come lo era stato Elvis), quando gli inglesi venivano a cercare successo musicale in Italia, quando neppure sapevamo cosa volesse dire cover ma ascoltavamo versioni italiane (spesso folli) di successi internazionali. E si scopre anche che Nessuno mi può giudicare avrebbe dovuto essere un tango, meno male che Caterina, discografica in fieri, li aveva fatti correre. Tutti.
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