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Quando l’imperatore diventò umano

Quando l’imperatore diventò umano

Maboroshi Ogni agosto nei mini theater, le piccole sale indipendenti giapponesi fondate per lo più negli anni ’80 che ancora resistono alla grande distribuzione, è ormai quasi un’usanza quella di proiettare […]

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 19 agosto 2016

Ogni agosto nei mini theater, le piccole sale indipendenti giapponesi fondate per lo più negli anni ’80 che ancora resistono alla grande distribuzione, è ormai quasi un’usanza quella di proiettare e offrire alle nuove generazioni, ma anche alle meno giovani, la possibilità di rivedere alcune delle pellicole nipponiche che meglio hanno saputo cogliere la tragedia e tutte le infinite implicazioni della Seconda Guerra Mondiale.

 

 

In tutto il pianeta, moltissimo è stato scritto e altrettanto è stato realizzato a livello cinematografico e televisivo su questo periodo. Ci sembra però interessante concentrarci sulle migliori pellicole giapponesi che nel corso di questi 70 anni hanno saputo cogliere, esplorare e (ri)aprire porte su temi, fatti e problematiche scaturite durante e dopo la fine della guerra. La lista è naturalmente fortemente incompleta e totalmente arbitraria, però abbiamo provato a dare spazio a stili, generi e registi diversi, soffermando la nostra attenzione sui lavori che la guerra la criticano certo, ma riescono anche a fornire un quadro complesso degli avvenimenti.

 

 

 

Se già in pieno conflitto molti film, pur sfacciatamente di propaganda, avevano iniziato a scavare nel lato oscuro della militarizzazione totale – non si può non citare almeno Army di Keisuke KInoshita del 1944 e il suo incredibile finale – le cose cominciarono a cambiare nel 1946, con l’arcipelago sotto l’occupazione americana, quando esce The Japanese Tragedy, documentario realizzato da Fumio Kamei.In una memorabile sequenza, la foto dell’imperatore Hirohito in abiti militari che sfuma in un’altra dove indossa abiti «normali», è racchiuso uno dei significati più profondi della sconfitta nella psiche di molti giapponesi: la normalizzazione e l’umanizzazione dell’imperatore che fino ad allora era ritenuto un’entità di discendenza divina.

 

 

Proprio sulla resa e sulle lotte interne all’esercito per non ammettere la sconfitta si concentra quasi con tono fattuale il racconto di Japan’s Longest Day, film di Kihachi Okamoto del 1967 di cui è uscito anche un remake l’anno scorso. Ma è forse la trilogia di The Human Condition, tre lungometraggi realizzati fra il 1959 ed il 1961 da Masaki Kobayashi, l’epopea più grandiosa e ad ampio respiro che sia mai stata girata per portare su pellicola il periodo di militarizzazione dell’arcipelago. Un’epoca vista e vissuta attraverso gli occhi e l’esperienze dal pacifista Kaji nell’interpretazione di Tatsuya Nakadai.

 

 

 

Dello stesso anno è anche Fires on the Plain, con cui Ichikawa Kon realizza uno dei suoi capolavori: il soldato Tamura alla deriva in un desolato paesaggio di morte nelle colonie filippine, isolato e malato di tubercolosi scende negli inferi materiali e psicologici dove la guerra cancella ogni umanità di chi vi partecipa. Il film è tratto da un libro che ha ispirato anche una più recente pellicola dallo stesso titolo e diretta da Shin’ya Tsukamoto, molto diversa per stile, approccio e produzione: resta però uno dei gridi più forti e disperati contro qualsiasi guerra visti sul grande schermo negli ultimi anni.

 

 

 

Chiudiamo con una delle pellicole più toccanti e profonde che siano mai state realizzate, Una tomba per le lucciole di Isao Takahata del 1988, con cui il cofondatore dello Studio Ghibli racconta attraverso l’animazione la devastante storia di una fratello e della sua piccola sorella che tentano di sopravvivere fra le macerie di un Giappone raso al suolo e senza alcuna speranza, film che ancora oggi ha la capacità di commuovere e toccare profondamente le coscienze.

matteoboscarol@gmail.com

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