Il legame della Fondazione Merz con la natura ha radici profonde, nell’osservazione del mondo vegetale di Mario Merz e nella ricerca di una forma archetipica e prefigurale di Marisa Merz. Nei loro lavori la sfera dell’umano si è sempre riflettuta su quella naturale e viceversa, come appartenessero a un unico segno fluido.

[object Object]

SI PUÒ DIRE essere stato questo il pensiero sotteso alla mostra curata da Beatrice Merz e Agata Polizzi per ZACentrale a Palermo: Ordo naturalis, ordo artificialis. Solo una virgola li separa. Il manifesto di questa comunione sono le piccole teste di argilla combinata ad altri materiali, plasmate da Marisa Merz, e poste sul tavolo Doppia spirale forgiato da Mario Merz in metallo e vetro. La presenza di Mario e Marisa Merz aleggia come forma viva in continua evoluzione, in un processo di nutrimento reciproco che germina nelle opere che abitano lo stesso spazio. Il primo dialogo si pone con il Giardino ideale project_tappeto di Sierpinski (2016-2022) di Michele Guido. I suoi moduli di bosco, come una foresta primaria, enfatizzano la struttura geometrica delle piante, mentre le sezioni di pianta nel tappeto frattale di Sierpinski creano uno spazio che tende all’infinito. Con lo stesso andamento progressivo e frattale, le 873 mele accompagnano, nella successione Fibonacci, l’attorcigliarsi imprevedibile della struttura di un altro tavolo di Merz, al cui titolo non bisogna aggiungere nulla: Pietra serena depositata e schiacciata dal proprio peso così tutto quello che è in basso va in alto e tutto quello che è in alto va in basso, sopraelevazione e opera incerta di pietra serena.

[object Object]

E L’INCERTEZZA – l’imprevedibilità nella progressione dell’opera nello spazio – parla con un altro lavoro in mostra: Someone told us a story about nature and purity (2022) degli attivisti e agricoltori Fabio Aranzulla e Luca Cinquemani, un germinatoio di varietà rare di grani. La spontaneità qui si innesta nel rifiuto della narrazione romantica dei grani antichi dalla matrice identitaria – frutto della pressione selettiva e produttiva, e in parte intrecciata alla favola autarchica fascista. I semi trovano nello spazio di Zac la possibilità di ibridarsi, contaminarsi e, non è da escludere, far fallire lo scopo produttivo. Una natura connotata dalla purezza e dall’incontaminatezza sembra ridere dell’essere umano. La risata si fa più ironica e onirica nel lavoro di Basim Magdy New Acid (2019) i cui protagonisti sono animali che si scambiano battute in una app di messaggistica istantanea facendo il verso a un’umanità idiota.
Con un’emotività diversa Giorgia Lupi e Ehren Shordai guardano all’umano in Incroci (2022) che, nel tentativo di tenere in equilibrio analogico e digitale, piegano il vissuto di 99 persone a un processo di raccolta, elaborazione e visualizzazione dei dati.

I DATI PERDONO COSÌ la loro natura arida e impersonale, diventano un nuovo alfabeto universale e connettono vite molto lontane tra loro, tracciando linee nette altrimenti invisibili. Un po’ come i fiumi palermitani spariti da secoli sotto tonnellate di cemento che Andreco celebra con Palermo (2022) una bandiera dei fiumi cancellati, elementi cruciali per la vita delle città e di chi la abita. Una forma di restituzione che torna nel lavoro di Icy and Sot, Giving Plants (2019), che hanno aiutato i residenti del campo per rifugiati di Olive Grove sull’isola di Lesbo a costruire un giardino di fiori e ortaggi.

LO STESSO DESIDERIO di sfumare le tinte dure dei ricordi sepolti di guerre attraversa il film di Johanna Hadjithomas e Khalil Joreige Remember the Light (2016), nel quale immagini di guerra si sovrappongono a un immaginario sottomarino.
La guerra non è solo nello sfondo, né fuori, ma tangibile in mostra. La scena finale di Il dottor Stranamore (1964) di Kubrick va in loop su quello che sarà il black wall di Il Terzo Reich, spettacolo di Romeo Castellucci. Le esplosioni di bombe riempiono lo schermo, persistono sulla retina, sul tema carezzevole di We’ll Meet Again. Contraddizioni che solo una città come Palermo può fare splendere.