Quando Lana difese gli antichi, condannati a Stanford come sessisti e razzisti
Classico e Cancel culture: anni ottanta «Considerazioni sul Classico»: il brano di una dispensa universitaria anni ottanta, ripescato da uno studente di allora (oggi latinista)
Classico e Cancel culture: anni ottanta «Considerazioni sul Classico»: il brano di una dispensa universitaria anni ottanta, ripescato da uno studente di allora (oggi latinista)
«Anche chi non dedica abitualmente attenzione ai problemi culturali sarà rimasto certamente colpito dalla recente proposta di professori e studenti dell’Università di Stanford (Stati Uniti) della quale hanno dato notizia anche i quotidiani italiani (…) di escludere dal novero degli autori da fare leggere agli studenti del primo ciclo – noi diremmo: alle matricole universitarie – tutti i classici del mondo occidentale, condannati in blocco come sessisti, reazionari, repressivi e razzisti, sostituendoli con scrittori rappresentanti del Terzo Mondo, delle minoranze americane, della cultura femminista».
Sembra scritto oggi, no? Invece queste parole risalgono a quasi 35 anni fa −1988 −, quando chi scrive frequentava all’Università di Torino i corsi di Letteratura Latina di Italo Lana; le sue dispense di quell’anno, Considerazioni sul classico, da cui proviene questo excerptum, ben mostrano che davvero nihil sub sole novi. La polemica non era rimasta relegata ai banchi austeri di Palazzo Nuovo, ma aveva avuto una notevole eco nei media, tenendo banco per oltre un mese con interventi di intellettuali del calibro dello stesso Lana e di Luca Cavalli Sforza (il cui contributo è ancora leggibile nell’archivio de La Stampa, con titolo che adesso sarebbe al limite del politicamente corretto, Alla ricerca di un Dante nero, 31 marzo 1988). Nel passaggio dagli USA all’Italia gli effetti di substrato della cultura di partenza colorarono in termini diversi la querelle des anciens et des modernes: il fulcro del dibattito americano era il multiculturalismo policentrico degli USA, privi di un rapporto profondo con la classicità, al di là dell’architettura neoclassica della Casa Bianca e delle lettere greche con cui usano denominarsi le confraternite studentesche. L’idea di depurare gli USA dai classici eurocentrici può parere un nobile gesto; in realtà, cancellare le proprie radici, non fa che affermare con ancora più forza il colonialismo e sottende: il mondo è stato creato col Mayflower, non siamo europei, siamo americani, anzi, siamo l’America (erano, naturalmente, gli anni di Reagan); in Italia, in quell’epoca, ben precedente rispetto al fenomeno delle grandi migrazioni, il razzismo (non trascurabile, certo) era al più tra settentrionali e meridionali (o tra livornesi e pisani); il problema dei classici era, ed è, quello di poter esser attaccati da ogni lato: dalla sinistra in quanto retaggio del culto fascista di una Romanità di cartapesta e per un preteso effetto di selezione di classe del liceo classico (il che è in parte vero, ma, volendo parlare in utramque partem, si trattava – e si tratta – anche di una straordinaria opportunità di ascensore sociale); dalla destra mercantile perché non funzionali alla mission di produrre manodopera a basso costo prima, e poi, cessata l’esigenza dopo le grandi manovre della delocalizzazione, perché non funzionali a quella che nel suo fortunato saggio Segmenti e bastoncini (1998) Lucio Russo definisce «scuola per consumatori». Insomma, la polemica antieurocentrica si innestava sulla eterna discussione, che come minimo si può far risalire a Gramsci e Marchesi e al dibattito sulla Scuola media unica, sulla cultura per le masse: un discorso ben più sociale (e inconcepibile negli USA) che etnico.
Il quadro ideologico della decostruzione dei classici nel frattempo è un po’ cambiato: anche l’Europa sta diventando, con fatica, un melting pot, che è tuttavia ben difficile amalgamare. Non aiuta il fatto che ci troviamo in una fase che potremmo dire neotribale, in cui l’individuo è sempre più visto come intersezione di più appartenenze in potenziale lotta tra loro: religione, sesso, genere, etnia, lingua, ecc. Nel diagramma di Venn che ne risulta, l’individuo si riduce a ben poco; inoltre, essendo potenzialmente infinite le tribù ed essendo tutte potenzialmente coinvolte in un bellum omnium contra omnes, diventa sempre più difficile che due individui, compatibili per un aspetto tribale, non siano invece in conflitto su altri fronti. L’identità tende sempre più a essere definita con una tassonomia che farebbe impallidire Linneo, spesso con la creazione minuziosa e bizantina di gerghi, acronimi e sigle a etichettarla. Perciò è fatale che viviamo, per usare una efficace espressione di Guia Soncini, nell’era della suscettibilità. Ne fanno le spese la pace sociale, la creatività (il mestiere di comico sta diventando sempre più difficile) e, naturalmente, i classici (non solo greci e latini), perché nell’era delle identità ogni tribù deve avere il proprio punto di riferimento totemico, mentre i classici si propongono come terreno culturale condiviso. Insomma, siamo un po’ al paradosso per cui ciascuno riterrà solo ciò che gli pertiene da ciò che viene favorito adducendo ragioni di inclusività («Terzo Mondo, minoranze, femminismo»), bollando invece come esclusivo il classico, che per definizione si propone come base universale. Poi, effettivamente, per un europeo basarsi sui valori europei (evitando possibilmente invenzioni della tradizione) non è forse cosa così bizzarra.
La conclusione che Lana traeva allora era forse un po’ troppo apocalittica e suona datata: «L’impazienza intollerante di professori e studenti di Stanford, che non vogliono più indugiare sui classici occidentali, è proprio segno di questa comune perdita del centro e manifestazione del deserto e del disordine in cui il mondo di oggi, il nostro mondo vive»; ma Lana non era certo uomo da semplificazioni così banali e riscattava subito questa sbandata moralistica: «Penso che a noi tocchi di accogliere la parola dell’antico sapiente poeta: “I sapienti sanno il vento che soffierà di lì a due giorni” (Pindaro, Nem. VII, 18-19). Noi non siamo sapienti come Pindaro: ma siamo impegnati, come uomini di cultura e di scuola. a capire il nostro tempo, a coglierne i segni, ad antivedere il futuro, con la consapevolezza che il futuro non starà nella restaurazione del passato». E credo che su questo siamo tutti d’accordo.
Bisognerebbe poi forse sentire che cosa davvero interessi i nuovi cittadini i cui figli ci accingiamo a formare, prima di fare loro favori non richiesti e magari ricadere nel whitesplaining. Io ho insegnato Introduction to Classics a ragazzi europei e non; ho fatto loro tradurre Catullo in giapponese e Orazio in coreano; ho sempre avuto riscontri entusiasti. Attenzione: tanto più entusiasti quanto più la cultura e le lingue erano lontane. Incredibilmente, autori lontani migliaia di chilometri e migliaia di anni riuscivano a comunicare loro emozioni e a suscitare ammirazione. E lo stesso càpita ormai ai nostri ragazzi. Gli stranieri che riescono a permetterselo mandano i loro figli e le loro figlie nei licei, molto spesso al liceo classico; non vogliono essere diversi, ma, molto spesso, essere come noi, talvolta ancora più di noi. Noi, in questa cultura, siamo nati; loro l’hanno scelta. Personalmente, ricordo un bambino nigeriano delle elementari che al termine di un laboratorio sugli antichi romani mi disse «da grande voglio fare latino»; poi invece è andato a lavorare molto presto. Forse, invece di decostruire i classici, sarebbe il caso di costruire una società che permetta a ragazzi come lui di studiarli, se l’articolo 34 della Costituzione non è carta straccia. E magari, invece di togliergli il latino, diamogli la cittadinanza.
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