Quando l’algoritmo fa il gioco della destra
La sfida digitale Parla la sociologa americana Jen Schradie, docente a SciencePo a Parigi, autrice di una ricerca durata dieci anni, iniziata con Occupy e conclusa durante l’amministrazione Trump che indica come l’attivismo online sia al centro delle strategie di conquista dei nuovi conservatori. Non solo negli Stati Uniti. «Mentre la sinistra usa la rete e i social soprattutto per mobilitare, i reazionari fanno informazione alternativa a quella dei media mainstream certi che diffondano notizie false»
La sfida digitale Parla la sociologa americana Jen Schradie, docente a SciencePo a Parigi, autrice di una ricerca durata dieci anni, iniziata con Occupy e conclusa durante l’amministrazione Trump che indica come l’attivismo online sia al centro delle strategie di conquista dei nuovi conservatori. Non solo negli Stati Uniti. «Mentre la sinistra usa la rete e i social soprattutto per mobilitare, i reazionari fanno informazione alternativa a quella dei media mainstream certi che diffondano notizie false»
Negli ultimi anni abbiamo assistito al modo in cui certi messaggi veicolati dalla destra italiana, o internazionale, relativi ad alcuni grandi temi, hanno saputo diventare virali. Per un certo periodo siamo stati ossessionati da «La Bestia» di Matteo Salvini, la macchina della propaganda social che produceva contenuti graficamente brutti ma diffondeva messaggi semplici ed estremi, generando spesso ampie reazioni in rete, tali da alimentare o amplificare il «senso comune» su determinati argomenti. E un fenomeno simile, anche se di dimensioni ben più ampie, ha accompagnato l’affermazione di Trump. Senza contare i «messaggi» NoVax, certe campagne dei Cinque Stelle o il lavoro compiuto dai russi attraverso il network di notizie della RT, già Russia Today.
Cosa hanno in comune tutte queste vicende? Si tratta di contenuti diffusi da gruppi organizzati, dotati di risorse economiche, spesso ingenti, e di staff che conoscono bene i meccanismi degli algoritmi dei social network. Non esattamente l’idea che ci si era fatti della rete come strumento partecipativo e orizzontale. La sociologa americana Jen Schradie, docente a SciencePo a Parigi, e autrice di The revolution that wasn’t. How digital attivismo favours conservatives (Harvard University Press, 2019) studia da anni l’attivismo online e il modo in cui è utilizzato con successo soprattutto dalle destre.
Quale la domanda centrale che si è posta quando ha iniziato a osservare questo fenomeno?
Ho cominciato dieci anni fa. Eravamo in piena primavera araba e la gente parlava di «facebook e twitter revolution», c’erano gli Indignados e c’era Occupy Wall Street. Parallelamente si discuteva di «digital divide», delle disparità di accesso a questi strumenti e mi sono chiesta, visto che ci trovavamo di fronte a movimenti e rivoluzioni accompagnate dall’uso dei nuovi strumenti digitali, quanto pesasse l’appartenenza sociale nella capacità di utilizzarli. All’epoca si trattava soprattutto di movimenti di sinistra, ma io osservavo come ci fosse anche una grande attività online a destra, anche se poco raccontata dai media. Sono partita da questo interrogativo: che differenza c’è tra il modo di usare il web e i social tra le diverse classi e tra destra e sinistra? E quali sono da questo punto di vista le pratiche quotidiane degli attivisti quando non si è nel bel mezzo di una fiammata che riempie le piazze come stava avvenendo in quel momento? All’epoca mi trovavo a Berkeley, non il luogo più adatto per studiare la destra. E così mi sono spostata in North Carolina, una zona conservatrice, dove Obama era riuscito a vincere nel 2008, ma che in seguito era tornata ai repubblicani.
A questo punto cosa ha scoperto e cosa l’ha colpita di più nella capacità della destra di mobilitare le persone attraverso questi strumenti?
I conservatori usavano internet per fare informazione e imporre il loro messaggio nella convinzione che i media mainstream veicolassero notizie false e di parte. Invece la sinistra usava principalmente i social come strumento di organizzazione. Diciamo che entrambi i gruppi usavano questi strumenti per mobilitare le persone, ma l’idea della destra era piuttosto quella di diffondere il messaggio, qualcosa che somiglia al modo in cui gli evangelici diffondono la parola di Dio.
Quali sono perciò gli elementi che rendono la destra più forte nell’attivismo online? Quali le differenze con gli attivisti di sinistra, il peso dell’appartenenza sociale e dei dispositivi tecnologici e delle conoscenze che mettono in campo?
Credo che la parola chiave che spiega come mai i conservatori hanno fatto un lavoro migliore, sia «potere». Hanno più potere, più risorse derivanti dalla classe di appartenenza o dalle organizzazioni che li finanziano. L’ecosistema social della destra è più solido e compatto. C’è poi l’aspetto organizzativo: i gruppi conservatori sono più gerarchici e burocratici e hanno un’infrastruttura che funziona. Il che, vista l’idea che ci siamo fatti inizialmente dei social media, è abbastanza ironico. L’orizzontalità della sinistra rende la divisione del lavoro e le mansioni di ciascuno meno definite. Avere uno staff pagato che studia gli algoritmi, monitora il successo dei messaggi e così via, è uno vantaggio notevole. Naturalmente esempi simili esistono anche a sinistra, ma nel caso della destra pesano poi molto anche i soldi. Infine c’è l’ideologia: i progressisti usano messaggi lunghi e complicati in maniera che nessuno si senta escluso (diritti civili, sociali, Lgbtq, razzismo, ambiente). I conservatori veicolano un contenuto unico, tutto declinato intorno al tema della «Libertà» (di parola, informazione, religione, portare armi, mercato) e avere un messaggio semplice e coerente funziona di più vista la durata breve dell’attenzione sui social.
Un messaggio semplice e chiaro, l’idea di una società parallela a quella mainstream, il cercare di creare un senso di comunità: tutte caratteristiche che hanno anche i media conservatori e che vengono prima dell’attivismo online…
Una delle cose di cui parlo nel mio libro è la trasformazione dell’informazione negli Stati Uniti. Tra queste novità c’è l’ascesa dei media di destra, non solo di FoxNews. I conservatori hanno investito in mille strumenti, nazionali e locali, radio, web e anche giornali statali. I media, le organizzazioni e i think-tanks sono inoltre strumenti di raccordo che favoriscono gli scambi: ho assistito a un incontro tra il capo della potente Americans for Prosperity, la macchina organizzativa dei fratelli Koch (miliardari che finanziano da tempo campagne elettorali e movimenti di destra) e i rappresentanti di un think-tank locale, Civitas, di gruppi di base che si occupavano di social media training. Era un ecosistema organizzativo e informativo completo: sopra chi pagava e decideva e sotto chi faceva da «braccio».
In alcuni casi, come in Georgia lo scorso anno, dove Stacey Abrams e molti gruppi hanno lavorato alla partecipazione delle minoranze al voto, vincendo così le elezioni in uno Stato tradizionalmente repubblicano, l’attivismo progressista ha però funzionato.
Per certi aspetti la Georgia è un buon esempio di quel che ho trovato facendo ricerche per il mio libro. Nell’ultimo capitolo parlo del «moral monday movement» che nel 2013 ha mobilitato molte persone in senso progressista in North Carolina. Era proprio dove mi trovavo e così l’ho potuto studiare «in diretta». Dopo sei settimane di mobilitazione, ci si ritrovava ogni lunedì, è cominciata anche la viralità sui social che rispecchiava ciò che stava accadendo nella vita vera. Nel 2020 in Georgia è successa la stessa cosa: anni di lavoro di base, di porta a porta che usava gli strumenti digitali solo come elemento marginale, per far sapere al mondo quello che stava succedendo nelle strade, ha dato i propri frutti. In questo senso, per la sinistra, la rete può essere solo parte di un lavoro capillare, non può sostituire la mobilitazione tra le persone.
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