Quando la rivolta dello stile incontra il romanzo ucronico
Scaffale «1973. Rock’n’Roll, nazisti e Monty Python» di Federico Bonadonna e Pierluca Pucci Poppi, per Round Robin. Dopo che Röhm ha fatto fuori Hitler, il mondo celebra il glam e l’estetica che irrompe in politica
Scaffale «1973. Rock’n’Roll, nazisti e Monty Python» di Federico Bonadonna e Pierluca Pucci Poppi, per Round Robin. Dopo che Röhm ha fatto fuori Hitler, il mondo celebra il glam e l’estetica che irrompe in politica
È il 1973. Benito il Duce è appena passato a miglior vita. Il delfino, Bettino Craxi, prova a rispolverare le antiche radici socialisteggianti del Pnf. In Germania gli ebrei se la passano male ma non malissimo. In compenso per gay e trans è il paradiso. Il Führer omosessuale Ernst Röhm in carica da quando Hitler finì ammazzato dalle SS nella Notte dei lunghi coltelli del 1934, ha reso la Germania il Paese più avanzato del mondo su quel fronte. Alle forze armate non ha però dedicato altrettanta attenzione e la pressione della Polonia guidata dal dittatore Karol Wojtyla si sta facendo minacciosa. L’Inghilterra è nei guai fino al collo, impegnata in una guerra coloniale in Medio Oriente contro arabi ed ebrei, che non vedono l’ora di cacciare Albione per saltarsi al collo.
BASTA COSÌ. É GIÀ CHIARO che ci troviamo in una ucronia da manuale, uno di quei romanzi nei quali si presuppone che arrivata a un punto di snodo la storia abbia preso un’altra direzione. In questo caso si tratta appunto della Notte dei lunghi coltelli, quando Hitler, in omaggio alle forze armate, fece piazza pulita delle camicie brune che lo avevano portato al potere, eliminò l’unico uomo al mondo con cui si desse del tu, il capo delle Squadre d’assalto Röhm. Le SA conservavano il miraggio di una rivoluzione «socialista» oltre che «nazionale», erano più interessate al fronte interno che non all’espansione del Reich. Hitler se ne liberò in una sola notte ma le cose sarebbero potute andare diversamente. In fondo le SA erano 3 milioni, le neonate SS appena 200mila, l’esercito non superava le 10mila unità.
Federico Bonadonna e Pierluca Pucci Poppi, gli autori di 1973. Rock’n’Roll, nazisti e Monty Python (Round Robin, pp. 236, euro 14), non si accontentano però di partire da uno scarto storico e poi descriverne a grandi linee le conseguenze. Scendono nei particolari. Popolano il loro libro di personaggi reali, che somigliano per carattere e disposizione a quel che sono stati davvero ma che quella torsione della storia colloca in postazioni diverse però credibili, possibili. Per chiunque conosca anche solo un po’ la storia del XX secolo diventa impossibile non farsi prendere dal gioco e ritrovarsi a immaginare cosa farebbero, in questa realtà alternativa, le figure sfuggite alla pur enciclopedica panoramica degli autori.
1973 è un libro scritto per divertire divertendosi. Non chiede di essere preso troppo sul serio e dimostra la versatilità di Bonadonna, il cui ultimo e bellissimo romanzo Hostia era invece una storia raccontata in tinte opposte. 1973 è un gioco di estrema intelligenza. Nella realtà alternativa che descrive tutto è diverso, ma non troppo diverso. Alcuni passaggi, come la decolonizzazione, sono in ritardo di qualche decennio. Al posto del «comunismo in un Paese solo» c’è il «nazismo in un Paese solo». Ma nel complesso la somma di particolari differenti compone un quadro nell’insieme simile a quello di oggi.
Tutte le citazioni messe in bocca ai personaggi storici sono frasi che davvero hanno detto in alcune occasioni, come il «Veritiero Addendum» in fondo al libro comprova. Anche i particolari visivi, come la cravatta con le svastiche indossata da Sadat nei colloqui con Moshe Dayan, sono reali, con tanto di foto a dimostrarlo. Proprio quella somiglianza nella differenza è l’aspetto sottilmente inquietante del gioco, il sottotesto per nulla ludico che interroga sia sul senso della storia che sui caratteri essenziali del presente in rapporto con il passato.
IL NAZISMO è naturalmente onnipresente, colto però soprattutto nella sua valenza estetica. È il nazismo come stile, quello che incaricava il giovane Hugo Boss di disegnare le divise delle SS e affidava il compito di diffondere la propria immagine a Leni Riefenstahl (naturalmente presente nel libro). Da quel punto di vista Adolf Hitler è davvero «la prima rockstar» come dice nel libro un David Bowie quasi identico a quello che abbiamo conosciuto. Lo ha detto davvero, come ha elogiato realmente, per una fase breve e transitoria, il nazismo. Jimmy Page, negli stessi anni, si è presentato sul palco in divisa da SS (e la foto-testimonianza nel libro non manca). Mentre Clapton ha esaltato Enoch Powell, leader xenofobo e razzista di estrema destra.
Ma anche la fascinazione delle rockstar per il nazismo era estetica, non politica. Siamo nel 1973, il momento in cui tanto nella nostra realtà quanto in quella del libro lo stile prende il sopravvento nel rock’n’roll: subito dopo l’avvento di Ziggy, nell’epoca glam destinata a lasciare un segno indelebile non solo nella musica. Come il nazismo, anticipato ma solo in parte dal fascismo, è l’irruzione dell’estetica nella politica, le rockstar che sfilano nel libro (alle quali si sarebbe dovuto aggiungere Marc Bolan) veicolano il trionfo dello stile nella cultura di massa, l’avvento dei corpi travestiti, inquadrati, resi coreografia, modificati, trasformati in strumento eminente della comunicazione di massa. Sommate, le due tendenze vincenti hanno composto una rivoluzione che ha cambiato tutto. Nella realtà del romanzo come nella nostra.
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