Italia

Quando la periferia ti forgia l’anima

Quando la periferia ti forgia l’animaCorviale, Roma – Pasquale Liguori

Una testa a forma di città Una psicoterapeuta che ha lavorato a L’Aquila sul trauma del post terremoto introduce il libro di Enrico Perilli che affronta il rapporto tra spazio urbano e sviluppo psichico

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 19 giugno 2019

(L’analista junghiana Magda di Renzo, dirigente dell’Istituto di Ortofonologia di Roma, introduce il libro «Il perturbante nell’espansione urbana. Elementi di psicologia dei luoghi» (Ed. Magi), di Enrico Perilli, psicologo e psicoterapeuta, docente all’Università de L’Aquila).

Come ben descritto nel libro di Enrico Perilli, la città non è solo un’insieme di abitazioni ma un luogo che contribuisce a determinare le condizioni psichiche di chi la vive permettendo anche un filo narrativo tra chi l’ha abitata e chi la abiterà.

Un luogo, quindi, che favorisce il continuum storico alimentando il vissuto di appartenenza e anche quel senso di identità che trova le sue più autentiche radici negli antenati reali e archetipici. Rimanere senza città, come purtroppo è accaduto in svariate situazioni di sisma o di altri eventi catastrofici comporta un vissuto traumatico che va ben oltre la perdita di un’abitazione o di oggetti personali, proprio per i vissuti trans generazionali che accompagnano l’appartenenza al luogo natio, sede delle origini e fonte di spinta propulsiva per la ricerca dell’altrove.

La perdita di uno spazio pubblico condivisibile, cuore di ogni città che meriti rispetto, porta inoltre con sé anche la perdita di uno spazio privato perché il primo non è più sede di spettacolarità, luogo adibito all’incontro, e il secondo non è più un luogo dove vivere la propria vita riservata e dove proteggere i segreti. La mancata delimitazione tra un dentro e un fuori rischia di promuovere una mancanza di rispetto per entrambi e sicuramente trasforma l’incontro in un “passa e fuggi” che iperconcretizza l’interazione senza possibilità di scambi dialogici.

Come sottolinea il filosofo James Hillman, una città ha bisogno di posti indicati a contatti umani a livello degli occhi, di luoghi d’incontro e di riunione che non si realizzano solo con la possibilità di incontri pubblici ma con l’opportunità di incontrarsi in pubblico. Luoghi dove donne e uomini possono incontrarsi e fare una pausa e dove sia possibile avere un momento di contatto con gli occhi.

NELL’ESPERIENZA da psicoterapeuta che ho potuto vivere a L’Aquila dopo il terremoto incontrando gruppi di insegnanti sono stata molto colpita dalla profonda nostalgia che tutte provavano per i loro «portici», luogo sacralizzato all’incontro e allo svago dopo il lavoro. Citando Hillman, l’autore ricorda «il modo in cui immaginiamo le nostre città, i loro scopi, i loro valori e aumentiamo la loro bellezza, definisce il Sé di ciascuna persona di quella città perché la città è l’esibizione tangibile dell’anima comunitaria».

Nelle immagini che le insegnanti custodivano e riportavano al gruppo, a volte anche portando letteralmente foto, disegni o cartoline che rappresentavano quei luoghi sembrava proprio di assistere alla ricostruzione del Sé dopo la distruzione di parti interne, come avviene appunto nei Disturbi post-traumatici. (…)

Nullus locus sine Genio, diceva Servio, volendo significare che ogni luogo riconosce i suoi numi tutelari che hanno il compito di proteggere e creare connessioni tra quanti vi abitano ma anche di costruire un’identità che renda riconoscibile le sue peculiari caratteristiche ad occhi estranei. Ed è al genius loci che l’Autore si riferisce per avvicinarsi fenomenologicamente allo studio dell’ambiente e alla costante interazione tra caratteri architettonici, aspetti socio-culturali e dimensione politica. Le azioni umane devono, cioè, trovare un luogo in cui accadere perché è impossibile concepire l’uomo al di fuori del suo ambiente.

In questa prospettiva il non-luogo delle città moderne, nell’accezione di Marc Augè, è uno spazio anti-relazionale, anti-identitario e antistorico. Il non-luogo viene infatti presentato come il fallimento degli insediamenti operai come il quartiere Zen a Palermo e il Corviale a Roma (esempi italiani riportati nel libro) che, con la loro colossalità, lontananza, assenza di collegamento con i centri storici e totale assenza di spazi pubblici sono diventati luoghi di segregazione dove si può solo abitare e non vivere socialmente. Il non-luogo determina naturalmente in chi lo abita un impoverimento psichico che si traduce in indifferenza civile, in depauperamento linguistico e in una tendenza all’iperconsumo come dimensione totalmente individualistica.

«A livello psicologico – dice Hillman – la criminalità nelle strade comincia in un mondo dove non si cammina: comincia sul tavolo da disegno dell’urbanista che vede le città come un susseguirsi di palazzoni altissimi e di centri commerciali, dove le strade sono solo efficienti vie d’accesso». E ancora: «Una città che trascura il benessere dell’anima spinge l’anima a cercarselo in maniere degradanti e materiali, nelle zone d’ombra dei suoi grattacieli scintillanti. E questo fenomeno tipico dei quartieri degradati non è solo un problema economico e sociale, è soprattutto un problema psicologico». (Hillman, 2004).

AI LUOGHI COME SPECCHIO dell’anima, Enrico Perilli dedica un intero capitolo e per avvalorare il significato e il senso profondo di quanto esposto voglio chiudere con un’immagine colorata che mi sono portata dietro dall’esperienza aquilana. All’inizio degli incontri avevamo somministrato alle insegnanti il «Test dei colori» di Max Luscher per evidenziare l’emozione presente dopo l’evento catastrofico. Non si trattava, infatti, di definire una patologia ma di sottolineare le conseguenze di un’esperienza dura come il terremoto per restituire la dimensione sociale che si era costellata. Ed effettivamente ciò che era emerso nella maggior parte dei protocolli era il rifiuto del blu, il colore dell’appartenenza, e la scelta del giallo e del rosso come tentativi vigorosi di superare l’ansia presente. Man mano che il lavoro procedeva e i luoghi ritrovavano la loro collocazione, almeno nella psiche, era come se i valori durevoli della tradizione e l’unione con Gea, la madre terra, che avevano profondamente influenzato il loro vissuto, ripristinassero un’identità più stabile.

Il riconoscimento delle radici consente viaggi reali e immaginativi in un altrove ridonando il blu dell’appartenenza anche a chi non ha più quei luoghi reali ma la mancanza di un luogo delle origini rischia di renderci stranieri pur abitando sempre lo stesso luogo. Mi auguro che le riflessioni presenti in questo libro aiutino a ridare il giusto valore alla bellezza dei luoghi per rendere il mondo un luogo dove valga la pena vivere. Ogni città riceve la sua formadal deserto cui si oppone.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento