Alias

Quando la guerra vola giù dal cielo

Quando la guerra vola giù dal cielo

Nine Eleven Se chiedete a un newyorkese cosa abbia significato per lui o per lei la caduta delle due torri vi racconterà la sua storia, a cominciare da dov'era e che nell'essere dov'era si è salvato

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 14 settembre 2013

 

Nessuno è il mio nome,

Nessuno mi chiamano

padre e madre

e tutti gli altri compagni.

Omero

 

(a J.S.)

 

Nel tassì il mio amico Don Palmer è ignaro di ciò che l’aspetta. È un giorno normale, ce ne sono già dopo l’attacco e in ogni caso il dolore, che qui insegnano da piccoli a non piangere, faticherebbe comunque a trovare un punto di emersione. Così non si accorge del tranello che la radio gli tende, neanche lui, avvezzo alla potenza del blues, essendone uno dei massimi esperti in Nord America. Ora non ricorda il brano che gli spalanca il cuore, se non che è dei Taj Mahal e spazza via ogni residuo di pudore dietro il vetro sporco della finestrella divisoria tra lui e l’autista. La fatica di aver tenuto tutto dentro per due lune si sfalda contro le corde della chitarra, e alla vigilia di Thanksgiving1, un pensiero scavalca ogni altro: “cosa ci disponiamo a ringraziare? Sono passati due mesi e non sappiamo ancora per certo il numero delle vittime”.

Anche qualche altro pensiero arriva a coniugarsi ma perde presto consistenza perché l’ansia lo macina, facendolo arretrare nella nebbia. Sul ponte il tassì corre dall’isola di Brooklyn a quella di Manhattan. Sul fondale, appare la città sempre più grande, illuminata dal tramonto. Sdentata.

Scoppia a piangere travolto dal dolore crudo, amarissimo e senza alcun rimedio, per i tremila morti dell’11 settembre.

 

Nei giorni successivi alla caduta delle due torri, nel chiedermi come si fa a capire dov’è la propria casa, mia figlia, che aveva allora otto anni, volle sapere qual era la differenza dentro di me fra l’Italia e l’America. Considerai a lungo la risposta.

“Il posto che si segue, l’America” dissi infine toccandomi il cuore.

“E l’Italia quello dove si torna?” chiese lei.

“Credo di sì”.

“Allora il posto dell’anima” suggellò. E rimase un fatto.

Quella fatale mattina non ero qui, sull’arcipelago newyorchese. Mi trovavo sullo stesso parallelo 41 Nord ma a 7000 chilometri di distanza, a Sala Consilina, in Campania.

Mi ricordo la polemica se non si dovesse trovare la giusta maniera di piangere quei morti. Dopotutto erano solo poche migliaia dinanzi ai milioni della cui morte era stata responsabile l’America, finalmente anche gli Stati Uniti assaggiavano un po’ della loro medicina.A me colpì il fatto che nello sguardo dei newyorchesi in televisione, il dolore era uguale a quello negli occhi di chi, la mattina del 24 novembre del 1980, si era svegliato insieme con me fra le macerie nell’Appennino dell’Irpinia. Quel lutto era mio. E in quanto mio, del mondo. E per questo motivo mi era chiaro che se il pompiere che tirava le vittime fuori delle macerie aveva nome e cognome e così il paramedico che rendeva lo stesso servizio fra i civili in Iraq, erano invece tutti senza nome e senza cognome i soldati americani che sparavano ai cosiddetti nemici dell’occidente fino a quando in occidente rimaneva chi, pur ritenendosi a sua volta innocente del loro sangue, stappava bottiglie di coca cola, riempiva di benzina Shell l’automobile, sgranocchiava cipster della Saiwa-Nabisco e tostava il pan carrè con le sottilette Kraft, indossava scarpette da ginnastica della Nike, fumava marlboro e comperava computer dell’Apple e della Microsoft, mentre con una coscienza ipocritamente pacificata e una faccia da schiaffi, denigrava l’America e

,

a meno di ventiquattro ore dallo scempio delle due torri, apostrofava New York con un “Ben ti sta!”.

Perché la corresponsabilità in ogni azione che ci riguarda, come ci hanno insegnato Marco Aurelio e la globalizzazione, è totale. E non si può mangiare nel piatto di un nemico prima di sputarci dentro. E che se si voleva chiamare all’appello il manichino Bush e le migliaia di soldati portoricani, neri e bianchi del proletariato americano mandati a massacrare l’Eurasia e il medio oriente, bisognava presentarsi allo stesso appello. Dov’eravamo stati? Dov’eravamo tutti la mattina dell’11 settembre?

Io, evidentemente, dalla parte sbagliata dell’oceano. E ora, voli bloccati, l’America isolata, potevo solo aspettare, in preda a un’ambascia senza eguali.

Notte e giorno, attaccata al telefono e alla rete, ero a New York, dove fatalmente mia figlia Dafne, la primogenita, era volata il 10, a casa di amici. Gli ultimi sei anni eravamo vissuti in Colorado e non avevamo più casa sull’isola. Nei giorni successivi, temendo un incipiente infarto per dei forti dolori al petto, mi recai al pronto soccorso per farmi fare un elettrocardiogramma. Il medico mi prescrisse degli ansiolitici che, nello sconforto, presi senza ribellarmi e un po’ mi aiutarono a sostenere il tempo che mi occorse per organizzarmi. Perché nel momento in cui il cardiologo mi rincuorò che non sarei morta, capii anche dov’è che appartenevo. La casa è dov’è il cuore. Feci le valige e io e la piccola Alchesay ce ne tornammo da Dafne, a Brooklyn.

Se chiedete a un Newyorchese cos’abbia significato per lui o lei la caduta delle due Torri vi racconterà la sua storia, a cominciare da dov’era, e che nell’essere dov’era si è salvato. Perché nessuno in questa città è incolume. C’eravamo tutti quel giorno e non ce ne siamo andati mai, anche coloro che, traumatizzati, sono partiti per sempre.

Quella mattina è pari a un simbolo, un tatuaggio, la prima volta, il giorno del matrimonio, la laurea, il battesimo del figlio, il prima e il dopo, una delle cifre della nostra appartenenza alla città.

La mia storia riguarda Omero e di come la guerra è entrata nella mia vita.

I miei soldati sono ragazzi giovani, spesso ancora con i brufoli sul volto. Hanno capelli cortissimi, sguardi seri e siedono in fondo alla classe, nell’università dove insegno. Non fanno mai ritardo, sono in genere già lì quando entro, i volumi dell’Iliade e dell’Odissea già acquistati il primo giorno di lezione. I loro pantaloni non arrivano mai sotto le scarpe né le magliette sono slabbrate. Li riconosco in genere dalla schiena dritta e dal fatto che le mani sono conserte sul quaderno aperto sul banco e che, quando parlo con loro, mi guardano sempre negli occhi. Già quando faccio l’appello, mi informo:

“E mi dica Mister Ramirez, è un soldato?”.

“Sissignora” è la risposta stupita ma orgogliosa.

Non chiamo mai Mister o Madam gli altri studenti e qualche volta sono stata rimbeccata per questo, ma mi difendo.

“Perché a me non mi chiama Mister Kelly?”.

“E di’ un po’, Bill Kelly, sei stato in guerra, tu? Hai imbracciato un fucile, hai mai avuto paura?”.

“No”.

“Insomma, grazie a Dio sei un tranquillo giovanotto di città”.

“Beh, sì”.

“Allora bacia a terra, Bill e domani portami il sesto libro dell’Iliade commentato, l’addio tra Andromaca e Ettore che muore per Troia. Potresti apprezzarlo tu, che sei sempre distratto a chattare con quella ragazza in terza fila”.

I miei soldati non sono mai distratti, prendono appunti, magari non fanno molte domande ma studiano. E mi scrivono lettere.

In esse spesso mi raccontano il fronte. Attraverso Omero, di cui amano la limpidezza con cui descrive la guerra. Capiscono il conflitto di Achille, l’indignazione di Aiace, la risolutezza di Diomede. E in me cercano il conforto, più spesso una ragione, talvolta complicità.

Ma io odio la guerra, non è facile conciliare.

Anno dopo anno, i miei soldati spalancano le esortazioni di Ettore, smagliano quelle di Sarpedonte. Me le rilanciano, svuotandole di ogni retorica.

“È proprio così, prof., ma senza parole”. Hanno tutti in grande ammirazione Ettore e Achille, Ulisse e Aiace; e il vecchio Nestore.

Shawn Seeger soprattutto. Dall’inizio del semestre mi aveva avvicinata, sua moglie era incinta e si preoccupava che potesse andare in travaglio durante una delle nostre lezioni, dunque volle avvertirmi. Stabilimmo immediatamente un rapporto di affettuoso rispetto e mantenemmo una corrispondenza fitta, fino a poco prima di Natale. A dicembre, nel consegnare il tema finale, mi scrisse per informarmi che probabilmente l’anno successivo sarebbe partito per l’Afghanistan con il plotone delle Forze Speciali per la terza e ultima volta. Era una sua scelta, il senso di lealtà verso i compagni lo richiamava, “se uno di loro dovesse morire non me lo perdonerei mai”. Mi ringraziava di nuovo per il nostro tempo insieme, per aver capito lui e la guerra, “lei che non ha mai visto il fronte”.

La bambina era nata in ottobre e in quell’occasione mi aveva scritto per avvertirmi del lieto evento e per raccontarmi, in poche righe, un incontro avuto nel negozio della moglie che lui sostituiva in quei giorni. Un avventore, un veterano del Vietnam, gli aveva fatto una domanda importante, da cui si evinceva che aveva inteso che Shawn era un soldato: “come faceva a saperlo, prof? Me l`aveva letta negli occhi la guerra?”.

Si fidava della mia risposta perché io conoscevo Omero. E nell’interpretare certi versi che a lui erano sembrati ostili, avevo trovato il senso non solo della loro logica ma della sua esperienza in Afghanistan. E di una missione in un villaggio, che non riusciva a scordare. Di quest’ultima mi aveva accennato dopo una lezione sulla paura. Omero spesso canta del clangore delle armi sul campo di battaglia, il rumore della morte.

“Pensate” dissi, “all’orrore di questi suoni nel ricordo, immaginate il terrore della guerra, contenuto in questa scarica continua di urla e di ferro contro ferro”.

“Ma la paura non si ha neppure il tempo di sentirla” opinò, “È il silenzio prima e dopo che non si riesce a sostenere. La mitraglia o la granata sono spesso un sollievo nel ricordo”.

Lo disse d’impulso e noi lo guardammo incerti ma io, cogliendo nei suoi occhi il disagio per l’orrore di ciò che aveva detto, gli venni in soccorso spostando l’attenzione con una domanda generale alla classe.

Non ci riuscii. Un altro ragazzo, uno studente di letteratura americana, uno di quelli ‘giusti’, con i capelli lunghi, vegano, che già da anni d’estate girava in autostop, prestando servizio di volontariato nelle fattorie biologiche del mondo, si voltò verso di lui e con sguardo serio esclamò:

“Shawn, quel rumore è la morte”.

“Anche il silenzio lo è” controbatté lui, “prima e dopo. È solo una questione di tempo”.

“No, solo dopo” sibilò l’altro indignato, “prima c’è la possibilità di scelta. Astenersi”.

Aveva ragione lui, certo, ma il mio cuore scoppiava d’ansia per il soldato.

“Non è questo il momento” pregai.

“No? E quand’è?” sbottò il ragazzo ‘giusto’, voltandosi a guardarmi sgomento, “è un mese che parliamo di guerra! Schiavi e tiranni, mercenari, città assediate, prepotenti senza pudore. Quest’Iliade non è che un’America dell’età del Bronzo. Sono tutti uno peggio dell’altro, Agamennone, Ulisse, Achille, Nestore, Diomede, Ettore. Gli unici due come si deve sono Andromaca e Patroclo e nessuno li ascolta!”.

Shawn lo guardò in silenzio, non avrebbe difeso il suo Paese né se stesso con le parole, era un uomo d’azione, come Aiace e Diomede. E in ogni caso lui le parole non le avrebbe sapute trovare comunque. Ai soldati non sono richieste.

Dopo la lezione mi aspettò fuori, e mi ringraziò subito per la mia delicatezza:

“Non mi chieda nulla però, una missione difficile, un villaggio nel deserto, sono vivo per miracolo”.

Quando mi aveva domandato perché il veterano del Vietnam l’aveva riconosciuto avevo tentato:

“Forse qualcosa nella pazienza del corpo, nel silenzio dello sguardo, ma soprattutto la tua quiete”. Non mi rispose subito, però dopo qualche giorno mi chiese se secondo me quella quiete era pari alla morte, come era successo con Patroclo e Priamo.

“Patroclo e Priamo?” scrissi subito incerta, pensando che si fosse confuso con i nomi degli eroi ma anche un po` inquieta, “cosa intendi? non capisco”. 

“Quando Patroclo maledice Ettore in punto di morte” rispose “e quando Priamo aspetta l`alba, nella tenda di Achille che dorme, per riportarsi il corpo del figlio a Troia”. Questa volta fui io a prendermi qualche giorno. Conosco Omero ma non la guerra.

Il soldato però si fidava di me e non potevo deluderlo, la posta in gioco poteva essere alta, non sapevo se e quali demoni lo stessero circondando. Così bluffai. Scrissi:

“Nella tua quiete cosa hai trovato?”. 

Scomparve. Non venne alla lezione successiva né mi scrisse un’email per avvertirmi della sua assenza, come era richiesto agli studenti. Ero sconsolata, cosa avevo creduto di fare, mi improvvisavo psicologa? Ne parlai con mio marito, mi guardò con serietà ma era tranquillo: “sta riflettendo sulla tua domanda”. 

Quella notte non dormii. Infine mi alzai, scesi giù in cucina, ascoltavo il vento, mi rifiutavo di distrarmi nella casa silenziosa. Volevo far passare il tempo senza palliativi, per sentire più da vicino il senso della quiete che rimbomba.

All’alba la sua lettera arrivò, mi avvertì il trillo del blackberry.

“Mi scuso per non averla avvertita della mia assenza la scorsa lezione, non accadrà più”.
Speranzosa preparai il caffè e mi avviai verso I`università.

Era l’ora di pranzo quando Shawn entrò da Carpe Diem dove aspettavo il mio turno in fila per una cioccolata calda. Sapevo che non era per caso.

“Buon pomeriggio professoressa, posso farle compagnia?”

“Sì”, risposi. Mi prese i libri di mano, “permette?” 

Non lo aiutai ad aprirsi, aspettai, ma ci guardammo negli occhi. Poi lui voltò la testa e iniziò:

“Attraversavamo il villaggio che doveva essere stato evacuato. Sembrava vuoto infatti. Il messaggio arrivò che era un’imboscata e di lasciare la strada principale ma era troppo tardi, iniziarono a sparare proprio allora. Scendemmo dalle camionette e lanciammo granate, colpimmo alla cieca ma bene, lasciammo tutti a terra. Fu un operazione di successo, non avevamo perso nessuno. Riprendemmo il cammino”.

Tre ragazze in fila davanti a noi ridevano rapite dallo schermo di un i-pad, alla mia sinistra seduti sugli sgabelli al bancone, due innamorati si baciavano davanti a beveroni schiumosi, un brano dei Radiohead suonava dagli altoparlanti. Shawn non aveva mai mosso la testa mentre avanzavamo nella fila scanzonata e colorata dell’affollato locale. Fisso lo sguardo in lontananza, le mani conserte sui miei libri, mi aveva parlato con voce piana e bassa.

“Quanti erano?” chiesi con la bocca asciutta.

“Non li contai”.

Ecco perché quando poco prima di Natale mi scrisse per avvertirmi che forse sarebbe ripartito per l’Afghanistan, mi sentii in dovere di dissuaderlo. Soprattutto credetti di potermelo permettere. La sua partenza per il fronte non era più necessaria: il rischio era troppo alto e a questo punto il suo dovere era nei confronti della figlia. Il governo americano non aveva bisogno del suo sangue ma l’America aveva sì bisogno del suo lavoro, e tutti noi del suo contributo nel crescere la bambina. Che non venisse su come Telemaco senza suo padre Ulisse.

 Mio marito, cui feci leggere la lettera, mi guardò arrabbiato. Disse che l`avevo scritta per me stessa, non per il ragazzo. Mi piaceva il suono altisonante delle mie parole? Dire a un soldato di non partire per la guerra, c’era da ridere! Mi ribellai, ero risentita con lui. Ma Shawn non rispose.

Non rispose mai più.

 

La casualità che riguarda ogni istante della nostra vita è il nostro più grande dono –probabilmente per caso-, e solo nell’essere presente, malgrado tutto quel che può distrarci ogni momento, è la nostra occasione per incontrarci con il Sacro, il separato.

Proprio quando ci avevo oramai fatto pace con l’idea che il posto del cuore forse è per sempre, qualcosa venne a scuoterne le fondamenta. L’estate scorsa, a Sala Consilina, in auto con mia sorella Katya su di un monte divorato da un incendio, sentii il puro disperato amore per la mia terra ancestrale. Alla ricerca d’aria in una densa nuvola di fumo, piansi di sollievo nel comprendere che il mio corpo apparteneva al medesimo luogo cui era legata la mia anima. Mi giurai- e con sollievo- che non importa dove sarei morta mi sarei fatta riportare a casa per farmi seppellire lì dov’ero nata, ai piedi di quella montagna. Al di là di dove se ne vada il cuore durante la vita, la nascita e la morte sono la casa dell’anima e il corpo gli appartiene.

A questo pensiero, tuttavia mi colse anche una forte ansia e tornata al lavoro due giorni dopo il mio rientro dall’Italia, mi diressi all’ufficio ammissioni, cercando notizie di Shawn Seeger. Non era più iscritto, l’ultimo semestre era stato quello con me, l’anno prima.

Mi buttai nell’Iliade, come faccio sempre nei miei momenti di quiete.

Dopo tre settimane, il libro diciassettesimo: la difesa da parte di Menelao e Aiace del corpo di Patroclo dagli artigli di Ettore e la preghiera, accorata e rabbiosa a Zeus, del grande Aiace: moriamo sì, poiché è ciò che vuoi, ma dacci la luce.

Il pessimismo dei greci, a ragione del quale si consuma appieno la loro tragica bellezza: sullo sfondo dell’indifferenza degli Dei l’unico riscatto è la nostra capacità di formare i fragili ma eroici legami umani.

Il soldato Jack uscì dall’auditorium, un po’ troppo in fretta mi parve. Proposi un intervallo alla classe e lo raggiunsi nel corridoio, gli misi una mano sulla spalla e lo sentii tremare.

“La smetta, prof, non è mica così nobile come lo descrive lei, uno se lo vuole scordare”.

“Perdonami”.

Ma il giorno dopo le sue scuse, in una lettera.

“In fondo, lei mi vuole bene, Tippy. Sono io che mi detesto. Menelao e Aiace sono una ragione in più per non darmi addosso, ci deve essere stato un senso in quei mesi in Afghanistan, e questo libro magari è una cura per me, perché mi ricorda che anche quando ci scordavamo le ragioni per cui eravamo in quell’inferno, erano solo i nostri compagni il motivo per cui resistevamo. E a parte loro, infatti, ho perso tutto, avevo ogni cosa prima di partire e solo il vuoto al ritorno. E non perché non ci fosse nessuno o niente ad aspettarmi, al contrario sono io che ho lasciato tutto al fronte, e non sono mai tornato a casa”.

Era per questo che Shawn era tornato in Afghanistan nonostante sua figlia e sua moglie? Perché la guerra che infuriava al fronte si mangiava le bugie che gli raccontava il Paese, si mangiava il Paese stesso e con esso tutta la sua vita in America, l’amore della moglie e della figlia, la dolcezza del vivere?

Non mi arrivavano risposte se non versi dell’Illiade: Achille, al ritorno a Ftia, al padre Peleo e al figlio Pirro, aveva preferito la morte sul campo di battaglia, e la guerra è di una terribile bellezza. Maledizione a te, Omero!

Scrissi un’email all’indirizzo che avevo. Senza speranza, per me stessa.

“Mr. Seeger, ti penso, spero che tu stia bene, che non sia mai partito o che sia tornato. Fatti vivo, ragazzo mio. Che gli Dei ti tengano stretto. T”

Di nuovonon riuscii a dormire quella notte. All`alba infine mi vestii in silenzio e uscii. Camminai fino al parco di Fort Greene e andai a sedermi ai piedi dell`obelisco dei Martiri della Rivoluzione. Con orrore e conforto pensavo alle ossa degli 11.000 soldati seppelliti sotto di me. Con affetto immaginavo il poeta Walt Whitman raccoglierne infaticabile a migliaia sulle rive sabbiose dell’East River, a poche centinaia di metri da lì, 150 anni prima. 

La lettera del soldato arrivò allora, mi avvertì il trillo del blackberry. Ma non era lui a scrivermi, invece sua moglie:

“… so lei chi è, la professoressa ‘Tippy’, amante di Omero e del cioccolato fondente, ‘ché al latte è per gente senza spina dorsale’. Shawn diceva che lei odiava l’esercito ma voleva bene ai soldati e Shawn voleva bene a lei. Mio marito non ha capito cosa lo ha colpito. È morto alle 3.47 del mattino, mi sono sempre chiesta come possano essere così precisi sull’orario…”.

 

Due incisivi vengono strappati a crudo a New York dodici anni fa e il mondo ancora paga il conto. La guerra impazza come un’acqua che bolle e bolle e nessuno spegne il fuoco sotto il calderone della follia. Mentre scrivo ora, con il ricordo di Whitman che non le ha mai viste, penso a Shawn che è morto dalle ceneri di quelle torri. Serio e attento, me lo immagino salutare moglie e figlia all`aeroporto, non pensa alla mia lettera. 

Ma non è andata così: “Fra le email di mio marito ho trovato quella che lei gli mandò prima del nostro ultimo Natale insieme, e di cui la ringrazio. Le mando la risposta che Shawn aveva iniziato a scriverle”.

“Prof Tippy, non è facile risponderle. Lei mi prega di non partire, ma si tratta di quel pomeriggio nel villaggio, di cui lei sa. In un certo senso è lì che sono rimasto. Non si può essere in tutte e due le cose, in quella quiete e in questa. Lo so che bisogna scegliere, che se stiamo qui possiamo essere solo in pace e lì solo macchine da guerra, e che non si può fare confusione, ma certe volte mi sembra che la guerra è qui e lì era la pace, in quella quiete, mentre s’aspettava. Ecco perché ora è meglio se parto. Non è che io proprio ce le ho le parole, mi capisce? E leggendo Omero, un poco li ho compresi i miei pensieri, ma non sto bene. Meglio prima forse, che era tutto confuso”. Non nominò ragioni, idee, scuse, sua moglie, sua figlia. La guerra se le era già mangiate.

Piansi sulle scale dell’obelisco dei martiri, approfittando del mattino presto singhiozzai senza ritegno, urlando una rabbia che andava oltre ogni conforto. Piansi d’impotenza, sbattendo i piedi a terra, come piangono i bambini quando hanno esaurito ogni speranza che gli adulti gliela daranno vinta. Piansi per Shawn e per gli altri soldati, per ognuno dei tremila morti dell’11 settembre, per i morti afgani, per quelli iracheni, per la moglie di Shawn e per sua figlia, piansi per sua madre. E piansi per me, per me e avrei voluto urlare a mio marito, “certo che è anche per me che scrissi quella lettera, perché non volevo perderlo il ragazzo, era anche mio, Shawn. È forse una colpa voler bene ai propri studenti? Sperare che vivano la vita, come l’abbiamo vissuta noi?”.

Decisi in quel momento che non volevo alcun conforto da nessuno, che volevo sentire il mio dolore fino in fondo, e che mi mangiasse in silenzio. Avrei continuato a prestare ascolto a Omero: “molto si miete in guerra, ma il raccolto è sempre scarsissimo”.

Questo, il terribile. Dove, la bellezza? Avrei cercato ancora, nei suoi versi.

Me ne tornai a casa muta, e muta sulla cosa son rimasta finora che ne scrivo seduta qui a Dumbo, sulla spiaggetta di fronte a Manhattan.

Passa un gruppetto di adolescenti, si lanciano l’un l’altro una palla da football, non avranno più di dodici anni, l’età di Shawn quando caddero le due torri dall’altro lato del fiume. Le cerco con lo sguardo, ma al loro posto ecco la Freedom Tower. Non importa, dietro di lei è la loro assenza testarda, l’ombra infinita; non vedo nient’altro. Ora che scrivo, proprio ieri che le camminavo sotto, domani che alzerò lo sguardo nella sua direzione, non vedrò che la loro sagoma, un lutto che non arretra. Avanza infatti il volto fiero di Shawn Seeger, i suoi occhi ridenti che guardano lontano. E con lui Dario Castillo, e Raoul Ramirez, e Alexander Foster, e Darryl Johnson. I miei soldati, che attraverso di me si son fidati di Omero, e viceversa. E mi hanno lasciato lettere e temi indimenticabili, prima di ripartire per il fronte. Quando la guerra, con un ultimo morso, dopo essersi mangiata le loro vite, ha inghiottito anche loro.

E New York è la più bella città del mondo? Ci manca poco. Nessuna notte urbana è come la sua notte. Ho guardato la città da fineste altissime. Sono immateriali, non si vede altro che la finestra illuminata. È a quel punto che i grandi palazzi perdono consistenza e assumono poteri magici. File di riquadri fiammeggianti si delineano tagliando l’etere. È questa la nostra poesia, l’aver piegato le stelle alla nostra volontà.

Ezra Pound (Patria Mia, 1913)

1 Festa del Ringraziamento, si festeggia negli Stati Uniti il quarto giovedì di Novembre.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento