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Cultura

Quando la foresta trabocca e respira

GEOGRAFIE Un percorso critico e letterario intorno al dispiegarsi selvatico del desiderio. A proposito del romanzo della nipponica Ayase Maru e del saggio dell’americano Jack Halberstam. Tra donne-pianta in attesa di radici, ragazze dai pensieri-fogliame e stanze trasformate in grovigli, si intrecciano anche gli immaginari: dal Giappone agli Usa. Temi sensibili anche nei libri della sudcoreana Han Kang, «La vegetariana», o nel racconto della belga Anne Richter, «Il silenzio delle piante» nell’antologia «Le Visionarie»
Pubblicato 10 mesi faEdizione del 22 dicembre 2023

Pensiamo spesso al desiderio come a un’addizione e invece è soprattutto il sentimento di una mancanza. Gli esseri inumani probabilmente ne sono sprovvisti, eppure è al loro modo di esistere che rivolgiamo l’attenzione quando vogliamo intercettarne i fondamenti. È così che al posto delle tradizionali storie sulle leggi di natura troveremo l’intelligenza metafisica del mondo – nella postura consolidata di un animale, nella dedizione che alcune piante riservano alla luce, consacrando a un’apparente fissità il principio stesso del movimento. «Presto, lo so, perderò anche la capacità di pensare, ma sto bene. È da tanto tempo ormai che sognavo questo, poter vivere solo di vento, sole e acqua» confessa la protagonista del racconto Il frutto della mia donna, considerato il nucleo all’origine del romanzo La vegetariana della scrittrice sudcoreana Han Kang. Una ragazza che ha sempre avuto l’impulso di scappare dalle cose, spingersi ai confini del mondo, e che invece si ritrova a impersonare il ruolo di una moglie rinchiusa al tredicesimo piano di un grattacielo «con la guancia premuta contro il vetro della portafinestra», attanagliata da un dolore illegittimo che la ricopre di inspiegabili lividi sempre più simili a foglie – ogni notte lo stesso sogno, trapassare il cemento armato, fuoriuscire dall’appartamento lasciandosi sbocciare alle estremità fiori che assomigliano a larve bianche. Ci sono vite più vegetali che umane, umori inaddomesticabili che reclamano nutrimenti linfatici.

LA RAGAZZA del racconto Il silenzio delle piante, della scrittrice belga Anne Richter (nell’antologia Le Visionarie, Not, 2018), a un certo punto fa così: si procura un enorme vaso di ceramica, un sacco di terriccio, ci mette dentro i piedi e si ricopre fino ai fianchi. Il suo unico desiderio: «uno stordimento che le facesse vedere le cose in maniera diversa, lei completamente pietrificata mentre la terra oscillava, e il sole e le nuvole a vorticarle sopra la testa». Si assorella a queste donne-pianta in attesa di radici, ragazze dai pensieri-fogliame, Rui, protagonista indiscussa del romanzo La foresta trabocca (Add, pp. 160, euro 20) il primo dell’autrice giapponese Ayase Maru ad arrivare in Italia, nella traduzione di Ozumi Asuka. La vediamo seduta al tavolo della cucina nella casa che condivide con il marito-scrittore un attimo prima di salire le scale con passi leggeri, mangiare semi ricchi di grasso da una ciotola di legno senza proferire parola, sorreggersi una guancia tenendo il gomito appoggiato sulla superficie, guardare verso chi parla. «Vuota, priva di un sé, e per questo bellissima», qualche pagina dopo sul punto di germogliare quasi a compensare gli sprofondi di una insanabile incomunicabilità domestica. Uno sciame di editor esperti, apprendiste e allieve di corsi di scrittura si aggira attorno alla casa, la frequenta per intercettarne i discorsi, si spinge fino al piano di sopra alla ricerca di libri scomparsi, alle soglie di una camera da letto trasformata in foresta. «Come stare nella boscaglia incolta ai margini delle città» pensa la giovane Shirosaki quando se la ritrova inaspettatamente davanti – l’erba alta che le accarezza le ginocchia, un vento sottile, la luce sufficiente per guardarsi intorno; tutto ciò che per definizione non si addice a un appartamento. Il regno perfetto, per una donna esausta di aver sposato l’io narrante del marito, insofferente alla ragnatela di realtà e finzione che da troppo tempo la opprime. Un mondo vero ma «bizzarro», inventato su misura ma «non circoscritto», capace di «traboccare all’esterno», con l’andamento indisciplinato e intriso di grazia proprio degli ecosistemi selvatici.

UN DISORDINE solo apparente che risponde alle leggi precise di un desiderio in grado di far collassare vecchi ruoli e consunte categorie di genere, trasformare una moglie in un meraviglioso mostro, seguendo come unico dettame l’incantamento generato dalla materia che si dispiega. Nel saggio Creature selvagge. Il disordine del desiderio, tradotto da Goffredo Polizzi per minimum fax (pp. 376, euro 20), lo scrittore americano transgender Jack Halberstam fa iniziare il suo discorso sulle «wild things» dalla favola di Maurice Sendak, Nel paese dei mostri selvaggi, dove un ragazzino travestito da lupo e intento a combinare guai viene spedito a letto senza cena. La stanza in cui si consuma questa insopportabile reclusione diventerà un paesaggio di foglie e rami che attraversano le pareti tramutandola presto nella soglia di un altro mondo. «Dato che Max non ha potuto fare il selvaggio, il selvaggio è andato da lui, di notte e nella sua immaginazione» scrive Halberstam. «Ma piuttosto che essere un luogo di innocente meraviglia, nella geniale invenzione di Sendak, il selvaggio è un posto di rovina, privazione, anarchia e disperazione». Halberstam usa il termine wild, che nella lingua inglese ha una connotazione romantica nel suo richiamare la wilderness quasi come «mindscape», stato di coscienza, visione del mondo. Un termine che si avvicina all’italiano «selvatico» – come proprio di selva, associazione spontanea di vegetali su un’ampia zona di terreno, e solo per estensione attribuito agli animali o alle persone – altra cosa dal «selvaggio» che include invece quasi sempre un giudizio di valore, la connotazione morale, colonialista, che anche nella lingua inglese ha finito per investire parzialmente la parola, sebbene ne esista un’altra, savage, che però da sola non basterebbe a raccontare tutto.

NEL «WILD» di Halberstam c’è la selvatichezza della foresta che entra nella stanza e c’è il selvaggio orrorifico dei «terribili ruggiti» e dei «terribili artigli» delle creature animalesche che popolano il paese dei mostri. Una dimensione in cui più estesamente «a essere messe in questione sono anche quelle gerarchie ontologiche ideate con il fine di stabilire, e far rispettare, i confini che separano l’umano da tutto il resto». Non un luogo da conquistare, quindi, né un’identità da rivendicare ma «uno spazio non omogeneo di potere estetico». Andare nel paese di queste «creature», significa allora soprattutto «mappare i contorni di un mondo che si basa sulla loro esclusione» scrive Halberstam. Solo una volta lì «potremo decidere se obbedire all’ordine di stare fermi o se, invece, dare inizio a un selvaggio finimondo».
Non è una coincidenza se attraverso saggi, romanzi, film e canzoni – da Joseph Conrad a Helen Macdonald, da Kate Bush fino ad Adele, passando per Ken Loach, Nicoletta Krebitz, Derrida, Sontag, Thoreau, Haraway, Foucault, Deleuze e molte e molti altri – Halberstam intreccia indissolubilmente la storia della wildness a quella dei modi in cui abbiamo imparato o disimparato a concepire il corpo e la sessualità, mentre sullo sfondo era soprattutto «la civiltà» a definire per contrasto tutto il resto come il suo opposto. Ma «il selvaggio non è semplicemente il contrario dell’ordine» ricorda Halberstam, è piuttosto la sua assenza, la presenza di una «forza entropica» e queer che «disordina il desiderio e desidera il disordine»: nessun obiettivo, nessun traguardo all’orizzonte, nessuna forma da assumere, nessun risultato auspicato.

È SOLO ASSUMENDO una postura simile che nel romanzo di Ayase Maru, lo scrittore Nowatari può distrarsi dalle aspirazioni che lo assediano e inoltrarsi nella sua oramai infestata camera da letto. «I folti alberi che intralciavano il suo sguardo e le erbe che gli si avviluppavano alle gambe gli ricordavano una lite avuta con Rui nel soggiorno, a notte fonda» scrive Maru nelle pagine più intense del romanzo. Presto però, l’angoscia di trovarci dentro «condensati i molteplici drammi che avrebbe preferito non ricordare e la cupezza delle notti in cui né dormire né fuggire gli erano concessi» lascia posto al panorama traboccante che sua moglie ha intessuto nel frattempo. Un giardino abbandonato che stranamente lascia vedere al suo interno, che in un labirinto di spiragli conduce sottoterra e si spinge fino a un fuori. È così che Nowatari dimentica il bisogno di dover raggiungere qualcosa e perde la cognizione del tempo. Si rende conto che quell’«intrico di materia organica» possiede un suo proprio respiro, che lì dentro da qualche parte al posto di un personaggio dev’esserci la donna che per anni gli ha vissuto accanto. Incamminarsi nella foresta equivale a incamminarsi verso di lei.

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