Visioni

Quando la fabbrica arrivò in tv sotto forma di un feuilleton

Quando la fabbrica arrivò in tv sotto forma di un feuilletonOtto ore non sono un giorno» (1972) di R.W.Fassbinbder; sotto Hanna Schygulla e Gottfried John

Tv Stasera e domani «Fuori orario» presenta in anteprima «Otto ore non sono un giorno», la serie di R.W.Fassbinder

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 4 febbraio 2022

R.W. Fassbinder muore quarant’anni fa, il 10 giugno del 1982, aveva 37 anni e una filmografia imponente (più radiodrammi, regie teatrali, serie per la tv, scritti critici e teorici illuminanti), scandita dal desiderio quasi frenetico di fare, sperimentare, creare, mettere alla prova talento e mezzi produttivi in un corpo a corpo dolcemente spericolato col proprio tempo, i vissuti e la materia di cui sono composti – aveva cominciato a girare neppure a vent’anni i primi corti dedicati a Godard e a Rohmer, Il vagabondo e Il piccolo caos, divenendo ben presto uno dei rivoluzionari protagonisti di quel Nuovo cinema tedesco, che tra gli anni 60 e quelli 80 aveva cercato di rifondare una cinematografia nazionale in profonda crisi.

OGNI SUA opera intreccia la storia della Germania, passata e a lui contemporanea, e quella del cinema – era stato anche attore per Straub e Huillet in Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano (1968) – gli amori dell’immaginario, a cominciare da Douglas Sirk il suo riferimento coi melodrammi «belli e entusiasmanti» come i film di Hollywood che Fassbinder amava ma non «ipocriti», e mai rassicuranti – «I personaggi di Sirk non erano felici. Ecco perché mi piacciono più degli altri» diceva. E poi Fuller o anche Hitchcock, e la politica, la sconfitta di una generazione, la sua, affrontata in tempo reale – come nel magnifico episodio del film collettivo Germania in autunno (1978) girato durante i funerali delle vittime di Stammheim, che diventa il requiem di un movimento. E l’idea di una «factory» unica in Europa – le star Ingrid Caven che è stata anche sua moglie o Hanna Schygulla e ancora Lilo Pempeit, cioè Liselotte Eder, la madre amatissima, i direttori della fotografia Michael Ballhaus e Xavier Schwarzenberger, l’attore e scenografo Kurt Raab, il musicista Peer Raben. Diceva Fassbinder: «Non trovo il melodramma irrealistico, a ognuno di noi piace drammatizzare ciò che accade, a questo si aggiungono le piccole nevrosi che cerchiamo di aggirare per metterci in discussione ,e il melodramma si scontra con loro. Prendi Come le foglie al vento (1956): ciò che passa sullo schermo non è qualcosa con cui posso identificarmi direttamente perché è così puro, così irreale. Eppure dentro di me diventa una nuova realtà perché la sola realtà che conta è nella testa dello spettatore».
Che cosa è dunque questo Otto ore non sono un giorno che arriva per la prima volta in Italia grazie a Fuori orario (stasera e domani, Raitre, dalle 01.10 alle 0.6)? Una serie andata in onda tra il 1972 e il 1973, e prodotta dalla Westdeutscher Rundfunk, che rivoluzionò la televisione tedesca reinterpretando un genere con grande successo di pubblico e molte critiche – sia da destra che da sinistra. Cosa disturbava tanto? Forse che i protagonisti dei cinque episodi (dovevano essere otto ma venne interrotta prima nonostante appunto l’ottimo risultato ottenuto) rimasti a lungo invisibili fino al restauro nel 2017 – quando vennero presentati alla Berlinale – sono operai, cosa mai accaduta fin lì in una serie tv. O che si parla della fabbrica ma in una cifra diversa da quella dei film «militanti» dell’epoca – anche se alla base c’è un anno di ricerche e di incontri e discussioni coi lavoratori.

I PROBLEMI in fabbrica e coi padroni si mescolano alle vicende amorose e alle avventure esistenziali dei singoli componenti della famiglia secondo le «regole» del feuilleton e con molto umorismo e un’allegria rara nell’universo fassbinderiano – che qui per la prima volta rispetto ai film girati fino allora si confronta con un budget maggiore e un prodotto destinato a un pubblico più ampio dimostrando di saper controllare formalmente e sul piano produttivo l’intera operazione. E soprattutto senza rinunciare a quella visione rivoluzionaria che caratterizza i suoi film: nel quotidiano a volte lunare dei protagonisti si parla di lotta di classe e di resistenza pacifica ma ostinata, di solidarietà e di utopia. Di difesa dei lavoratori e emancipazione delle donne, dei diritti dei bambini e degli anziani, della pensione, della mobilità interna e dei salari. Come combattere contro l’alienazione del lavoro, in che modo coinvolgere gli operai in fabbrica nelle battaglie?

IL PICCOLO appartamento dei Kruger a Colonia racconta un universo il cui centro è il nipote, Joachem (Gottfried John) proletario sexy che vive in coppia con l’esplosiva Marion (Hanna Schygulla). Tra quelle stanze, il bar, la fabbrica e gli attrezzi di lavoro Fassbinder mostra come si può pensare la rivoluzione, e lo fa con ottimismo, ironia, invenzione narrativa, e soprattutto una libertà che rifiuta il dogma del suo soggetto.

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